Le donne del libroTre madri di Francesca Serafini si misurano con le proprie insicurezze e il disperato bisogno di essere accettate. Si riscattano in una visione che rende ciascuna «un satellite in grado di tenere sotto controllo il mondo intero»
- Succede che, seguendo le tracce di un ragazzino scomparso, ci ritroviamo immersi in un romanzo in cui ogni cosa ci parla, perché chi l’ha costruito ha raccontato così bene quelle piccole e grandi malvagità provinciali che risuonano nei ricordi di tutti. Questo fa Francesca Serafini nel suo Tre madri, edito da La Nave di Teseo.
- Sono molte le donne raccontate in Tre madri, e ciascuna di loro si misura con il proprio corpo, magro o grasso, comunque portatore di insicurezza, da martoriare e piegare per il disperato desiderio di essere accettate.
- La commissaria del libro è stanca di dispotismi, soprusi e sudditanza, per questo quasi inconsapevolmente crea una rete capace di accogliere tutte le donne che incontra, fino a quando le vede riunite in una sua visione, pronte a combattere.
Quando in un libro scompare qualcuno di giovane e non sai che fine ha fatto, forse è morto, forse chissà, io sono contenta. Non mi appassionerei allo stesso modo se il protagonista fosse un mio coetaneo, perché c’è meno futuro da giocarsi. Sono ossessionata dalle storie in cui i personaggi principali – anche se sulfurei o solo evocati in assenza – sono adolescenti. A volte non m’importa nemmeno che vengano trovati, vorrei solo che qualcuno componesse per me tutti i tasselli della loro vita, mi raccontasse le loro camere da letto, che musica ascoltano, chi baciano e chi odiano.
Non sono sola a pensarlo, siamo in molti, è un modo per tornare indietro a quando volevamo sparire noi, affinché qualcuno ci venisse a cercare. Nostalgia riparativa.
Poi succede che, seguendo le tracce di un ragazzino scomparso, ci ritroviamo immersi in un romanzo in cui ogni cosa ci parla, perché chi l’ha costruito ha raccontato così bene quelle piccole e grandi malvagità provinciali che risuonano nei ricordi di tutti. Questo fa Francesca Serafini nel suo Tre madri, edito da La Nave di Teseo.
La commissaria
A Montezenta, un paesino romagnolo simile a tanti, non succede mai niente. A Montezenta succede tutto.
Lisa Mancini è la commissaria venuta dal futuro, planata dall’Interpol di Lione a occuparsi del tempo che non passa negli uffici in cui, principalmente, si aspetta di essere inghiottiti dalla noia.
Perché è lì? Si vocifera di storie di letto che prima l’hanno elevata, per poi farla collassare in mezzo a queste anime per niente salve. Le congetture e le ipotesi che hanno rispedito nel passato la commissaria hanno tutte un retrogusto sessista e patriarcale quanto basta, e quel piacere nel denigrare il talento altrui che, scrive Serafini «va sempre vilipeso, in modo da assicurarsi una qualche autoassoluzione che allontani – dovesse sfiorarci – il pensiero di esserne sprovvisti». Come in tutti i paesi, l’omosessualità è una malattia da cui dover guarire, le signorine cuorinfranti si barricano in casa con una scorta di viveri fingendo di essere amate in mari esotici, e quasi tutti non seguono il consiglio dato da Cesare Pavese prima di morire, facendo troppi pettegolezzi.
A Montezenta, superato il bosco, vicino al ponte sul fiume c’è una piccola comunità di artisti che lavorano il ferro e che hanno abbracciato una vita decisamente fuori dagli stereotipi. Il posto si chiama Ca de Falùg, la “casa dei falò”, e gli abitanti del paese non sarebbero dispiaciuti nell’immaginare un enorme falò in grado di incenerire questa strana confraternita. Francesca Serafini è una linguista e ci fa notare che le parole hanno il senso che dai loro, dunque falùg vuol dire anche “faville”, come quelle che sono in grado di fare gli artisti, che trasformano scarti industriali in nuove possibilità. Anche Lisa Mancini ha bisogno di nuove possibilità, e gliele fornirà la sparizione di River, un ragazzino che fa parte di questa piccola comunità.
Quando la commissaria mette piede per la prima volta a Ca de Falùg, è inquietata dalla scultura in lamiera che accoglie i visitatori e riproduce il volto – enorme – di un bambino: gli occhi di vetro verdissimi e al posto della bocca un vuoto che ti trascina in un urlo.
Serafini ha ragione quando dice che la responsabilità personale nel bene e nel male è una scelta, e che elaborare il dolore è l’unico modo per lasciarlo andare.
Nel suo romanzo che trascende la narrativa di genere c’è molto dolore da lasciare andare, e ci sono anche le sue meravigliose ossessioni, disseminate come indizi e doni tra i suoi personaggi. Come quella per Fabrizio De André che canta in Tre madri «Lascia noi piangere un po’ più forte/Chi non risorgerà più dalla morte/Piango di lui ciò che mi è tolto/Le braccia magre la fronte il volto/Ogni sua vita che vive ancora/Che vedo spegnersi ora per ora», e Francesca Serafini prende quel titolo per abbracciare le madri da lei raccontate nel romanzo, che scopriremo essere più di tre. Anche loro sono in attesa di capire cosa fare con il loro dolore, ferme, bloccate, terrorizzate. I figli sono scappati via, sembrano essersi dissolti, forse uccisi, forse mai arrivati.
Tutti abbiamo madri che ci aspettano dalle distanze siderali in cui, prima o poi, noi figli ci confiniamo, e non sempre troviamo qualcuno disposto a cercarci.
Drogarsi di videogiochi
«Chissà quale strana forma di stregoneria in genere ci fa apparire come porto sicuro la palude in cui finisce intrappolata ogni nostra istintività», dice Serafini a proposito delle famiglie. Scappiamo tutti, e cerchiamo continuamente riparo da quello che ci soffoca in strani modi. La strategia della commissaria è drogarsi di videogiochi. Vincere i nemici, avere il controllo, superare la barriera dei livelli le permette di non concentrarsi sullo stallo in cui è bloccata la sua vita. Trova rifugio in Candy Crush, fino a quando la domanda che le compare scolpita sullo schermo – «vuoi davvero arrenderti?» – le inietta in circolo, come un veleno, la necessità della sfida.
Così, mentre insegue le tracce di River, la sua si trasforma in una caccia antropologica, e lei si trova a indagare soprattutto le ferite di una comunità.
«Diventare adulti è inoltrarsi in un sentiero in cui non ci sarà nessuno a proteggerci», scrive Serafini in Tre madri, dunque dobbiamo provare a imparare la cosa più difficile di tutte: proteggerci noi, con le nostre bellezze e miserie.
Serafini sceglie le parole con una cura maniacale e, con questo libro, inventa per la sua commissaria una lingua che è anche un auspicio, perché la sua protagonista crea una grammatica basata sulla condivisione: permette alla voce delle donne che incontra di occupare fisicamente uno spazio decisionale e di moltiplicarsi, distruggendo così, poco a poco, le logiche machiste del potere.
Sono molte le donne raccontate in Tre madri, e ciascuna di loro si misura con il proprio corpo, magro o grasso, comunque portatore di insicurezza, da martoriare e piegare per il disperato desiderio di essere accettate. La sua commissaria, come noi, è stanca di dispotismi, soprusi e sudditanza, per questo quasi inconsapevolmente crea una rete capace di accogliere tutte le donne che incontra, fino a quando le vede riunite in una sua visione, pronte a combattere: «Lisa ora è un satellite in grado di tenere sotto controllo il mondo intero, dal quale a un certo punto vede spazzati via, stanati in un colpo solo, ovunque si trovino, tutti quelli che, magari respinti o ignorati da una donna, negando il diritto al rifiuto, si sono arrogati loro quello di fargliela pagare. E lì, per incanto, le vede fiorire: insieme, nello stesso istante, a ogni latitudine. Tutte le donne che rialzano la testa». È una bella visione.
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