Dagli anni Sessanta ha cercato di liberarsi del fardello di 007. Odiava il personaggio per cui tutti lo ricorderanno. L’intera saga dell’agente sciupafemmine è percorsa da riferimenti alla morte: l’ultima sua scena è girata in una bara
«Non è il tempo per morire/No Time to Die», recita il nuovo film del James Bond di Daniel Craig, che chissà quando e dove vedremo. Non è il tempo per morire, appunto. E intanto se ne va, fresco dei suoi 90 anni appena superati, proprio il primo e forse unico James Bond, cioè Sean Connery.
Anche perché per noi, per tutti quelli che con il James Bond di Sean Connery ci erano cresciuti, ma chi non c’è cresciuto?, il nome di Bond valeva quello di Connery. Difficilmente divisibili. Come Johnny Weissmuller e Tarzan, sostenevano i vecchi produttori della saga, i furboni Saltzman e Broccoli, che ricordavano che niente, dai tempi di Tarzan era stato così forte per il cinema di avventura.
Per loro, ma certo non per Sean Connery, che già a pochi anni dal successo del suo primo film, Agente 007 - Licenza di uccidere, ne prendeva le distanze. Leggete le sue vecchie interviste, tutte tra il 1964 e il 1967. «Basta!», «L’era di Bond si avvicina alla fine come quella dei Beatles», «Ancora un paio di film e poi sotterriamo 007», «Voglio che la gente si scordi di Bond e cominci ad apprezzare Connery», «Io sono un attore non sono soltanto James Bond». Ma anche le dichiarazioni del suo ufficio stampa di allora, tale mister Carlyle, «Non parli con Sean Connery di James Bond, la prego». Ma stavano lanciando un ultimo 007, come faceva Connery a non parlare di Bond.
Anche Terence Young, primo e in fondo più importante regista della saga, suoi Licenza d uccidere, Dalla Russia con amore, Missione Goldfinger, Thunderball, considerato da chi aveva girato quei film come la vera fonte d’ispirazione del personaggio, l’uomo che aveva insegnato come muoversi al rozzo scozzese proveniente da 36 diversi mestieri, inizia presto a prendere le distanze e a odiare James Bond. «Un sadico che uccide freddamente i suoi avversari quando sono disarmati, un bruto che si comporta come un villanzone con le donne, un fascista che avrebbe fatto carriera nelle SS».
Colpa degli intellettuali
E aveva individuato i colpevoli della bondmania o del bondismo negli intellettuali, gente come Graham Greene, T.S.Eliot, perfino il presidente Kennedy, che non avevano nemmeno notato l’evidente razzismo del personaggio, che uccideva soprattutto neri e asiatici. Se l’odio di Young per Bond e la sua uscita dalla serie, sembra, si erano manifestati soprattutto a causa dei titoli di testa dell’ultimo 007 da lui diretto, Thunderball, dove il suo nome era scritto con caratteri troppo piccoli rispetto al suo valore, l’odio di Sean Connery per Bond era più profondo.
Che fosse un po’ una trappola, lo avevano capito bene sia Cary Grant, altro celebre modello del personaggio che rifiutò di interpretarlo già negli anni Cinquanta perché pensava che non sarebbe mai uscito dalla catena di un sequel poi un altro sequel, a discapito della sua forte identità di attore in grado di muoversi da un set di Howard Hawks a uno di Alfred Hitchcock, sia Richard Johnson, che molto piaceva sia a Terence Young che ai produttori, che rifiutò il contratto e con questo il successo planetario commentando più tardi: «Sette anni di contratto nel ruolo di un simile personaggio mi avrebbero reso pazzo».
Magari se ne sarà pentito vedendo un attore allora più oscuro e meno blasonato arrivare a un successo che a lui non sarebbe davvero mai arrivato. E si sarebbe dovuto accontentare addirittura di ruoli da sotto-Bond. Ma, certo, il contratto da 007 iniziò molto presto a pesare per Sean Connery, che si vide presto travolto più che dal successo alla Beatles, dal personaggio che lo oscurava completamente. Rispondeva stizzito a chi lo riteneva inglese: «Ma no, santo cielo, io sono S-C-O-Z-Z-E-S-E».
Il matrimonio con l’australiana Diane Cilento, con un figlio appena nato, salta subito. Con Sidney Lumet, che lo voleva con parrucchino e senza baffi come protagonista di La collina del disonore, bel film che andò anche a Cannes, si infuriò imponendo baffi e calvizie allontanandosi dal modello Bond-Connery. Bisogna dire che in tutti i film che interpretò in quel suo periodo bondiano cercò di farsi vedere come era, lontano dallo stereotipo.
Ma nessun film, pensiamo a un ormai dimenticato drammone con Gina Lollobrigida, La donna di paglia di Basil Dearden, dove rifilò un vero schiaffone a Gina, al kolossal moscetto La tenda rossa di Mikhail Kalatazov, dove prese 600 milioni di lire, al goffo western con una Brigitte Bardot completamente sballata, Shalako, di Edward Dmytryck, o al complesso ma tutto al femminile Marnie di Alfred Hitchcock, funzionò come uno 007.
Non era interessante
I suoi fan lo volevano solo come l’agente segreto con licenza di uccidere, sciupafemmine, sadico, ben vestito, con mille gadget. Che se ne facevano di Sean Connery? Non era interessante. Già dopo il secondo Bond, Dalla Russia con amore, Sean inizia a scalpitare. Deve fare per contratto il terzo, Goldfinger, ma intanto Kevin McClory, che aveva comprato i diritti di Thunderball di Jan Fleming, progettò di fare un nuovo 007 senza Connery chiamando Richard Burton e Sylva Koscina.
E se non ci sarà lui allora prende i contatti con Laurence Harvey, Rod Taylor, Peter O’Toole. Tutti ottimi attori, anche più bravi di lui. Ma il progetto di un Bond senza il vero Bond salta, Thunderball si farà ancora una volta con lui e con Terence Young, e con le stupende Claudine Auger e Luciana Paluzzi. Ma mentre gira e poi presenta alla stampa Si vive solo due volte, altro titolo che gioca con la morte, il primo senza la regia di Terence Young, urla dei quasi definitivi Basta!
E parte, di nuovo, la ricerca di un nuovo James Bond in grado di farci scordare Sean Connery per il film successivo, Al servizio segreto di sua Maestà, che sarà diretto da Peter Hunt Lo trovano nell’australiano George Lazemby, ragazzone sportivo, ma per nulla adatto al personaggio. Saltzman e Broccoli però, leggo, avrebbero girato con lui anche il successivo, Una cascata di diamanti, ma fu proprio Lazemby a non volerlo fare.
Lo chiedono, in ordine, prima a Burt Reynolds, che rifiuta, poi a John Gavin, belloccio sotto-Bond dell’Eurospy, quando torna in pista proprio il vecchio Sean Connery e firma un contrattuccio da 1 milione 250 mila sterline, allora uno sproposito, come James Bond. Sul set, ormai è storia, Sean si divide tra le due protagoniste, Jill St. John e Lana Wood, sorella di Natalie, e filma la sua ultima scena, che diventerà il suo addio alla produzione dei vecchi 007, addirittura in una bara.
Diventare Sean Connery
Del resto, come abbiamo visto, Bond e Connery, esattamente come Clint Eastwood nei film di Sergio Leone, civettano costantemente con la morte, sia nei titoli dei film che nella loro sostanza. E sull’uccidere e il morire più volte costruiscono parte del loro successo. Al punto che questo titolo, Una cascata di diamanti, sarà sì l’ultimo Bond di Connery con Saltzman e Broccoli, ma non il suo ultimo Bond, visto che lo riprenderà nel 1983, ben dodici anni dopo, per il divertente e notevole Mai dire mai, remake di Thunderball, diretto da Irvin Kerschner e prodotto da Kevin McClory.
Ma a quel punto, Sean Connery non è più solo Bond, ha girato grandi film come Il nome della Rosa di Jean-Jacques Annaud, Zardoz di John Boorman, I cospiratori di Martin Ritt, Il vento e il leone di John Milius, L’uomo che volle farsi re di John Huston, il suo film preferito, Robin e Marian e Cuba di Richard Lester, I banditi del tempo di Terry Gilliam. Finalmente invecchiato e lontano da James Bond, è diventato insomma Sean Connery. Come avrebbe voluto essere.
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