«Caro Maestro...».

«Aé (tipica espressione napoletana capace di racchiudere in sé ironia e finto stupore, ndr), maestro, maestro. Ma lei lo sa cosa diceva il grande Vittorio Gassmann?».

Ovviamente l'intervistatore non lo sa e aspetta la risposta da Renzo Arbore. Classe 1937, pugliese di Foggia e napoletano per desiderio, il personaggio è indefinibile. Nel senso che non si sa come etichettarlo, perché nella vita è stato ed è mille cose.

Conduttore radiofonico con Gianni Boncompagni, inventore di trasmissioni come Bandiera Gialla, Per voi giovani, Alto gradimento. Creatore di personaggi strampalati e censurati come il colonnello Buttiglione, una parodia gradita dal pubblico tra gli anni Sessanta e Settanta del '900, ma non dall'interessato che esisteva davvero e che non apprezzava quel suo doppio radiofonico. Scopritore di talenti, dai musicisti ai comici, come Nino Frassica, Riccardo Pazzaglia, Maurizio Ferrini.

Inventore e dissacratore della televisione con Quelli della notte e Indietro tutta, grandi successi diventati programmi cult. Attore in diciotto film e regista in due, il censuratissimo Pap'occhio, con Roberto Benigni, e Ffss, che mi hai portato a fare sopra Posillipo. Sempre all'avanguardia (fin dagli anni Sessanta, quando alla radio portò i dischi di un gruppo sconosciuto e poco gradito dai vertici Rai, i Beatles), sempre controcorrente, sempre sorridente.

Parlare con lui, scambiarsi opinioni sull'attualità e giocare con i ricordi del passato, è un piacere. Sentirlo parlare di musica e canzoni, un privilegio.

È una girandola continua tra i vicoli di Napoli e le stradine di New Orleans. Un diluvio di personaggi citati perché conosciuti e dai quali Arbore ha attinto a piene mani. Con molti di loro, da Murolo a Carosone, ha duettato in giro per concerti. L'uomo è il personaggio: una tempesta di idee e di progetti per il futuro. Ovviamente per la tv, che considera la sua seconda casa, il web, dove è attivissimo e frenetico navigatore, la musica e i concerti dal vivo con la sua Orchestra italiana. Ma veniamo al dunque.

Maestro, cosa le diceva Gassmann?

«Caro Renzo, stai attento, quando iniziano a chiamarti maestro, vuol dire che sei già nella fase discendente».

Non mi pare il suo caso, lei ha sempre nuovi progetti. Ci dica cosa sta facendo in questo periodo di clausura forzata?

«Appena finisco di parlare con lei devo fare gli ultimi ritocchi al nuovo programma per il mio canale www.renzoarbore.channel.tv. È in rete da lunedì, basta cliccare».

Maestro, ci dica 'o titolo, il titolo.

«Aspettando il vaccino».

Parliamo subito di cose serie?

«Serissime, il vaccino è essenziale per uscire da questa orrenda situazione. Mi vaccinerò e voglio dare un contributo perché la gente si vaccini, ma lo farò a modo mio, proponendo sorrisi e buonumore».

Lei è ottimista, ma quale Italia ci lascia in eredità questa pandemia?

«Io sono un vichiano, nel senso di Giambattista Vico, filosofo napoletano. Credo nei corsi e ricorsi storici e ho pure una certa età. Quindi ho visto tutto. La guerra a Foggia, da bambino, e il dopoguerra. Il paese distrutto, in macerie, e la voglia di fare. Il cinema con i suoi grandi protagonisti, dal neorealismo alla commedia. Registi e attori erano creatori, inventori, vincevano Oscar e diventavano scuola mondiale. Quelli di oggi, anche i bravi che pure ci sono, sono solo degli epigoni. Ho vissuto la musica. Le melodie e i suoni nuovi che arrivavano dagli Stati Uniti, il jazz, il blues. Ho visto crescere la Repubblica grazie alla voglia di fare degli italiani.

Si lavorava, si ricostruiva, si voleva stare al passo della modernità. Costruimmo l'Autosole in soli due anni. Ho visto la gente riscoprire la voglia di amarsi, di volersi bene. Ma lei lo sa che in alcuni paesi della mia Puglia i preti andavano d'accordo con i comunisti? Quella di Peppone e don Camillo non fu una storia del tutto inventata. Ho vissuto il boom economico, un periodo fantastico, artisticamente paragonabile alla Belle Époque. Quanta voglia di divertirsi, che miniera è stata la musica leggera italiana di quel periodo. E poi la politica, la prima Repubblica con le sue convergenze parallele e i governi balneari, il '68, gli anni bui del terrorismo, il crollo del Muro, la Milano da bere, e l'avvento di Berlusconi, le seconde e terze repubbliche, e Grillo. Fino a oggi, a questo revanscismo di destra che spero passi presto e prima possibile».

Maestro, nutre delle speranze?

«Certo. Non sono mai stato un comunista, neppure quando era di moda e quando la sinistra esercitava, come si diceva ai tempi, la sua egemonia culturale, diciamo che ci siamo rispettati. Ma spero fortemente che dopo questa grande crisi la gente ripensi a sé stessa e al modello di vita. Spero che si accantoni per sempre un periodo tutto votato al consumismo, al tornaconto personale, alla venerazione del dio denaro. Forse la clausura forzata ci ha aiutato a riflettere, forse riusciremo a ripulire il futuro dopo questi anni volgari e sbrindellati».

Il suo contributo è il sorriso, l'ironia e la dissacrazione intelligente.

«Parlavo prima del mio canale tv, un canalino, cerco di far sorridere e la gente mi segue. Pensi che riproponendo un pezzo di Riccardo Pazzaglia che cantava con Simona Marchini una canzone ironica dal titolo Me ne vado a fare il guru (provi a pronunciarlo velocemente e capirà), abbiamo fatto 700mila visualizzazioni».

Ascolti da talk show televisivo.

«Sì, ma senza urla, invettive, grida e offese. Pubblico nevrotizzato».

In una notissima gag di ormai trent'anni fa, lei e Nino Frassica convinceste un disperato Massimo Troisi che non era lui, ma Rossano Brazzi, attore del cinema dei telefoni bianchi. Perché lo diceva la televisione. Si trattò di un vedere lontano, anticipaste i tempi di oggi dove davvero la tv può importi le sue verità?

«Sì, può succedere, forse sta succedendo. Indietro tutta nacque proprio come forma di protesta verso la tv dell'epoca, anni Ottanta del secolo passato. Se li ricorda i quiz dove si doveva indovinare quanti fagioli fossero contenuti in un barattolo? E il come si chiama, da dove chiama? Non mi piaceva, non piaceva a Ugo Porcelli che con me firmava il programma. Mi irritavano le ballerine del Drive In. Insomma, non ci piaceva quel tipo di tv che ci portava indietro, ci faceva regredire come spettatori e come paese. Se altri mettevano in campo ballerine scosciate, noi li prendevamo in giro con le Ragazze Coccodé, ai quiz fessi replicavamo con il Che sta pensando quiz? Alla pubblicità ossessiva che serviva ad ammaliare il telespettatore trasformandolo in consumatore compulsivo, replicammo con il Cacao Meravigliao, un prodotto inventato, inesistente, che però la gente andava a cercare nei supermercati. Ci divertivamo prendendo in giro le trasmissioni bluff.

Ora è diverso, c'è la dittatura dell'auditel, non si premia più la qualità, ma la massa degli ascolti. Anche i critici televisivi si sono fatti sottomettere. Una volta, con giornalisti e scrittori del calibro di Sergio Saviane (grande critico tv de L'Espresso, ndr) i programmi erano belli o brutti. Non si discuteva. Ora l'aggettivo artistico è scomparso dal vocabolario televisivo, non va più di moda. Per tornare alle verità che la televisione può imporre, pensi che una volta in un programma di Piero Chiambretti mi divertii a simulare il mio fidanzamento con un’attrice, Sonia Aquino, di Avellino. Il gossip prese quota, i giornali mi cercavano, le tv volevano intervistare la mia nuova fiamma. Era una bufala ma ci cascarono tutti. Litigammo pure, sempre in diretta tv, e ci cascarono ancora. La mia televisione ha lo scopo di far sorridere. Da me la gente si aspetta il sorriso e la bella canzone. Ecco, se non fosse il titolo di un settimanale, potrei dire tv, sorrisi e canzoni».

Appunto, il pubblico si chiede, quando torna Renzo Arbore in televisione e con un nuovo programma?

«Sempre sorridendo, diciamo che non vengo sollecitato a fare nuovi programmi. Forse c'è una sorta di pregiudizio nei confronti dell'ottantenne Arbore. È la vita che va così, anch'io a 40-50 anni pensavo che a ottanta si fosse rimbambiti, fuori gioco. In ogni caso, se la Rai mi corteggiasse un po' di più qualche pensierino lo farei».

Lei parla della dittatura dell'Auditel, eppure i programmi di Alberto e Piero Angela fanno buoni ascolti?

«Ha ragione, ma si tratta di programmi che sono visti da un pubblico attrezzato culturalmente. Non è lo stesso che fa lievitare gli ascolti della tv trash, o peggio di quella cheap, mi riferisco a programmi che usano mezzucci e trucchetti a buon mercato per aumentare l'audience. Bisognerebbe testare la qualità del pubblico, operazione che nessuno fa ma che è essenziale per capire chi c'è davanti allo schermo, e quindi scegliere e selezionare l'offerta televisiva».

Nell'attesa, lei ha pubblicato un bel libro con Solferino editore, Guarda stupisci, viaggio nella canzone umoristica napoletana, riscoprendo un filone ricchissimo di quella inesauribile miniera che è la musica sotto il Vesuvio.

«Posso annunciare a lei e al suo giornale che sto facendo una battaglia perché la canzone napoletana venga riconosciuta come patrimonio dell'umanità. Spero che l'Unesco accetti. Ma lo sa che le nostre canzoni vengono studiate nei licei giapponesi? Eppure, non molti anni fa, la canzone napoletana veniva snobbata dagli stessi artisti, la ritenevano roba del passato, ormai archiviata e da non riproporre. Ma 'O Sole mio è come Summertime, non sono canzoni vecchie, ma eterne».

La canzone umoristica o della macchietta.

«Vorrei evitare la retorica, ma Napoli è la città più sorridente d'Italia. I napoletani, ma anche quelli di Benevento, Salerno e Avellino (i casertani un po' meno), hanno il gusto del sorriso nel loro dna. Le canzoni umoristiche non nascono dal popolo, nei vicoli, ma sono il frutto della poetica intelligente e ironica di grandi intellettuali borghesi. E. A. Mario non è solo l'autore della Canzone del Piave, ma anche di Tammurriata nera. Libero Bovio e Ferdinando Russo, grandissimi poeti, scrivevano testi che facevano sorridere. Totò cantava la struggente Malafemmena, ma anche Miss mia cara miss, la conosce?».

Certo... La incontrai per caso a Messina. Proveniva da Canicattì

Prese posto sulla littorina. Che partiva gremita quel dì...

«Bravo. Napoli era il Raffaele Viviani cantore dei vicoli e delle vite disgraziate, ma anche  il borghese Salvatore Di Giacomo. Ho conosciuto e avuto rapporti e scambi culturali con Marotta, Rea, Ansaldo, e ho capito che a Napoli alto e basso si fondono e si mescolano da sempre. La canzone umoristica e della macchietta non è mai volgare. I testi lambiscono la volgarità, ma si fermano sul confine, e questo grazie all'ironia e al sapiente gioco dei doppi sensi. Poi c'è la magia del dialetto-lingua napoletano. Giovanni Ansaldo, un uomo di cultura genovese trapiantato a Napoli, leggendario direttore de Il Mattino, diceva che una piccola volgarità era concessa, ma in dialetto, perché la lingua napoletana purifica».

In che senso?

«Faccio un esempio. Se dico a una persona, in italiano, sei uno stronzo, suona come un'offesa. Una cosa che può avere conseguenze anche forti. Se lo dico in napoletano, si strunz, giocando molto sul tono della voce, sembra un apprezzamento, il riconoscimento di una dote. Nella canzone umoristica partenopea c'è il lazzo, lo sberleffo, il doppio senso. I grandi macchiettisti napoletani erano bravi cantanti, ma anche attori, intrattenitori capaci di leggere gli umori del pubblico che avevano di fronte. Ma soprattutto erano dotati di una grande ironia e della capacità di prendersi in giro. Amedeo Pariante, grande chitarrista e cantante napoletano, oggi purtroppo dimenticato, incise Giuvanne ca chitarra, la storiella di un giovane spiantato senza arte né parte che sapeva cantare tutte le canzoni. Il brano ebbe successo quando lo cantò Renato Carosone. Erano gli anni Cinquanta, gli americani avevano lanciato Johnny Guitar cantata da Peggy Lee...».

Una lagna sdolcinata e pure un po' triste...

«Appunto, e Carosone rispose con Giuvanni ca chitarra, e fu un successo».

Tante storie, tanta energie, compresse in  casa. Come sta vivendo la clausura?

«Male, è una grande sofferenza. Mi salva la rete, sono un grande navigatore notturno. Apprezzo la smart tv, mai avrei pensato che con un semplice clic sul computer o sul telecomando, sarebbe stato possibile incontrare il mondo, scoprire artisti. Musicisti nuovi, anche attori e comici che fanno ridere, vedo tanti talenti in giro, pochi nel nostro paese, come se ci fosse passata la voglia e avessimo perso l'arte del sorriso».

Lei però non è solo uomo di tv, è un musicista, uomo di concerti, di contatto col pubblico. Le manca il palco?

«Tantissimo. La mia Orchestra italiana, sedici musicisti, tutti napoletani (siamo solo due i cafoni, vale a dire i non partenopei), compresi i tecnici una quarantina di persone, è ferma. Quest'anno festeggiamo i trent’anni di impegno, un migliaio di concerti in Italia e in tutto il mondo. Successi negli Usa, in Brasile, Australia, Russia. È l'orchestra stabile più longeva al mondo, neppure in America c'è un'esperienza del genere. Dovevamo andare a Dubaj, avevamo una decina di concerti già fissati in Italia. Tutto saltato. Speriamo nella ripresa, nelle vaccinazioni, e pure un po' nella fortuna, che si esca prestissimo dalla pandemia».

Ha visto Natale in casa Cupiello, parlo del film di Edoardo De Angelis con Sergio Castellitto?

«Devo dire la verità, non l'ho visto. Conosco bene la commedia per averla apprezzata in teatro con Eduardo, ma il film no. È una storia bellissima e tragica. Triste. E io non voglio intristirmi. Voglio sorridere e far sorridere ancora».

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