La fotografa britannica ha mostrato come sia possibile usare gli strumenti tradizionali per restituirci lavori di grande intensità poetica. Le immagini da Balcani, Mar Nero, Turchia ci mostrano luoghi e persone come appaiono – senza trucchi tecnologici – eppure riescono a far vedere ciò che nelle immagini non c’è. «La prima immagine che mi colpì da bambina fu quella di mia nonna giovane», Winship sarà ospite martedì 25 marzo al ciclo di incontri #Overview a Gallerie d’Italia a Torino
Vanessa Winship è tra le più importanti fotografe britanniche di oggi. Ha vinto due volte il World Press Photo Award, si è aggiudicata il premio Henri Cartier-Bresson e la Fondazione Mapfre di Madrid e il Barbican di Londra le hanno dedicato una grande retrospettiva.
È tra quegli autori che, negli ultimi decenni, hanno contribuito a ridefinire il ruolo di questo medium in relazione al mondo dell’arte. Non è un caso che Paul Graham, anche lui inglese, l’abbia inserita nel 2021 nella mostra che ha curato all’International Center of Photography di New York e intitolata But Still It Turns.
La citazione della battuta di Galileo («Eppur si muove») era riferita alla fotografia che nasce dal rapporto dall’osservazione del mondo «così com’è». Una fotografia che non ha bisogno di essere altro da sé perché gli sia riconosciuta la dignità di arte, come invece musei e gallerie hanno pensato negli ultimi venti o trent’anni.
Nella sua carriera Winship ha mostrato come sia possibile usare gli strumenti della fotografia tradizionale per restituirci lavori tutt’altro che datati, di grande intensità poetica. Le sue immagini dei Balcani, del Mar Nero, della Turchia, degli Stati Uniti e della sua Inghilterra ci mostrano i luoghi e le persone così come appaiono – senza troppi trucchi tecnologici – eppure riescono a farci vedere ciò che nelle immagini non c’è e che, magari, è inciso con nitidezza nel nostro cuore.
La sua visione
L’artista è nata in un piccolo paese sulla costa orientale dell’Inghilterra, Barton-upon-Humber. Un luogo dal quale le persone, spiega la stessa Winship a Domani, «non si allontanano così di frequente. Anzi, di solito ci rimangono tutta la vita». Il suo amore per la fotografia nasce nel contesto famigliare.
«La prima immagine che mi colpì da bambina fu quella di mia nonna giovane. Sapevo che era lei, ma sembrava un’altra persona», racconta. La prima foto l’ha scattata con una point and shoot dei suoi genitori e ritraeva la madre, il padre, il fratello in carrozzina e la sorella. La prima macchina fotografica? Comprata per immortalare il figlio avuto a diciannove anni. Questa dimensione intima, permeata dagli affetti, sembra non averla mai abbandonata, anche quando, negli anni successivi, lontana da Barton-upon-Humber, si troverà a guardare la società balcanica, il mondo post sovietico, la Turchia rurale o gli Stati Uniti.
Nel turbinio della storia Vanessa Winship è come se cercasse riconnettersi a quel livello personale e profondo, dove l’amore si confonde con la malinconia, e la tristezza viene alleviata da una mano che ne sfiora un’altra. C’è un aneddoto che racconta e che, forse, dice qualcosa del suo modo di stare nel mondo e osservarlo.
Nel periodo in cui era incinta, si trovò un piccolo lavoro nell’ambito di uno scavo archeologico attorno a una chiesa sassone del suo paese. «Poiché non potevo fare molti sforzi, mi portavano a casa le ossa ritrovate e io dovevo pulirle perché le potessero catalogare. Se ci ripenso, è un’immagine strana quella di una donna incinta che pulisce le ossa di quelli che, forse, sono i suoi antenati».
Il percorso
Winship studia prima a Bristol e poi, a partire dal 1984, in quello che allora si chiamava Polytechnic of Central London (PCL). Lì segue i corsi di uno dei padri della fotografia concettuale inglese: Victor Burgin. «Non studiavamo la straight photography, ma si parlava di analisi critica, semiotica, psicanalisi e post costruttivismo. Erano gli anni degli scioperi dei minatori, dell’epidemia di AIDS, del femminismo. C’era tanta politica».
È lì che Winship conosce George Georgiou, compagno di vita con il quale ha creato una partnership artistica che non si è mai interrotta da allora. «Quella del PCL era una sorta di bolla intellettuale, una volta fuori dalla quale occorreva capire come vivere. E con George non è stato facile trovare la nostra strada».
A fine mese non si arrivava con i raffinatissimi lavori di testo/immagine che hanno reso celebre Burgin. Per ottenere incarichi pagati, la strada più percorribile era quella di Chris Killip, il grande nome della fotografia documentaria britannica. È questo strano incrocio che, forse, ha permesso alla fotografa di immergersi nel mondo con uno sguardo che è allo stesso tempo profondo e accessibile.
La coppia Winship-Georgiou da Londra inizia a girare il mondo. Li troviamo a Belgrado nel 2001, ad Atene nel 2002, poi a Istanbul, dove si fermano cinque anni. In quegli anni Winship realizza con una 35mm straordinarie sequenze in un bianco e nero vibrante, grana grossa e ombre profonde: Imagined State and Desires: a Balkan Journey (1999-2003); Black Sea: Between Chronicle and Fiction (2002- 2006).
Poi passa al grande formato, scompare la grana, e le immagini si fanno più riflessive e malinconiche. Vengono alla luce Sweet Nothings (2007), una raccolta di ritratti struggenti di bambine scolare in uniforme nelle regioni rurali dell’Anatolia e Georgia: Seeds Carried by the Wind (2008-2010), dove il paesaggio interagisce con i ritratti nel Paese reduce dall’invasione russa. In tutti questi lavori appare chiaro che la realtà sociale e politica dei luoghi resta sullo sfondo, mentre Winship cerca di relazionarsi con riferimenti letterari come i romanzi dell’autore albanese Ismail Kadare o come “Black Sea”, il libro di non-fiction dello scozzese Neal Ascherson. Realtà e sogno si mescolano. Storia e dimensione personale si intrecciano in un flusso visivo anti narrativo.
Nel 2011, la fondazione Henri Cartier-Bresson assegna a Vanessa Winship il premio che le permette di viaggiare un anno negli Stati Uniti, come Robert Frank aveva fatto sessant’anni prima. Spiega Winship: «Quando lui realizzò The Americans aveva 30 anni. Io ne avevo venti di più. È stata un’esperienza completamente diversa».
Quello che la fotografa passa in America, non è solo l’anno in cui muore suo padre, ma quello delle manifestazioni di Occupy Wall Street e le proteste per l’uccisione di Trayvon Martin, che daranno vita al movimento Black Lives Matters. L’artista segue gli eventi, va nei luoghi in cui si svolgono i fatti. Ma “l’azione” nelle sue fotografie non compare mai. È come se a tema ci fosse il sommovimento esistenziale che stava sotto alle espressioni di disagio sociale.
Ne nascerà il suo libro più famoso: She Dances on Jackson (MACK, 2018): «È una sequenza fatta da molte immagini di cicatrici e segni. Persone che hanno segnato i loro corpi, in pubblico e in privato. Ma i segni sono anche nel paesaggio». Per Winship, ha scritto Paul Graham, la relazione tra ritratto e paesaggio è inestricabile e «i luoghi assumono significati particolari in base alle persone che incontra, a ciò che vede, a ciò che le accade personalmente. Ogni incontro umano, ogni suono e situazione aggiunge ulteriori dimensioni al suo lavoro e alle fotografie che ne derivano».
Gli ultimi anni
Gli ultimi anni, Vanessa Winship li ha passati tra l’Inghilterra e la Bulgaria, dove con George ha comprato e ristrutturato un ex granaio nella campagna nel sud del Paese. Ha fotografato soprattutto tornando sul fiume della sua infanzia, l’Humber. Ma anche in giro per tutte le isole britanniche. Immagini ancora in gran parte inedite. E poi in Spagna e anche in Italia.
L’ultimo libro, Snow, uscito nel 2022 per Deadbeat Club, è di nuovo un lavoro sull’America. Nasce da un lavoro per un magazine, che le aveva commissionato delle immagini su una comunità di amish, che d’estate si traferivano dell’Ohio alla Florida. Lei, però, decide di tornare negli stessi luoghi del Midwest e fotografare l’inverno.
Nella sequenza finale non appaiono persone, anche se ciò che vediamo, ci assicura, è l’esito di molti incontri e l’ascolto di molte storie personali «intime, qualche volta traumatiche». Le fotografie sono accompagnate da un testo di fiction dell’autore inglese Jem Southam: «È la storia di una fotografa che cerca di fare un ritratto a un bizzarro scultore che vive un una casa isolata. È un’opera di fantasia che raconta situazioni reali. Interagisce con le mie fotografie in modo non didascalico. È un libro sulla solitudine, la malinconia. La relazione complessa tra il fotografo e il suo soggetto».
Alcune delle immagini di Snow sono esposte in questi giorni nella collettiva “The Subjet Matters” alla galleria Viasaterna di Milano. Mentre Vanessa Winship sarà ospite martedì 25 marzo al ciclo di incontri #Overview a Gallerie d’Italia a Torino.
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