- «Chiudon tutto», «arrivano in talmente tanti che han preso parcheggi fino a Riva [del Garda]».
- Nel nostro miscuglio di contemporaneità e riservatezza, di relazioni internazionali e antiche abitudini, di voglia di far festa e piacere per la moderazione, il concerto di Vasco è caduto come un meteorite.
- Sfilando per tornare a casa, incontro un amico che non doveva esserci. Mi dice che l’epifania lo ha colto il mercoledì prima, mentre annaffiava i fiori alla finestra. Un’eco lontana, due strofe di Stupendo abbozzate in una prova pomeridiana. L’indomani la corsa a procurarsi un biglietto. «Non ho mica cambiato idea – mi dice risoluto – ho solo deciso che Vasco non me lo potevo perdere». E forse ha ragione due volte.
«120mila persone, venerdì… Tutte qui, che non si potrà neanche muoversi. Ma saran robe da fare secondo lei?» – segue attimo di silenzio – «…però, Vasco!» L’articolo potrebbe finire qui. La voce è quella del benzinaio della Ip di via del Brennero, Trento nord. Una ventina di parole borbottate sotto la cappa dei primi caldi: in questi giorni, l’altro grande argomento di conversazione. Potrebbe bastare perché c’è già tutto.
È trentino il tono rispettoso dell’invettiva, è trentino l’affermare qualcosa facendo una domanda; è trentina una certa istintiva ritrosia alla novità e alla confusione. La chiusa no, quella è per Vasco. Se l’è guadagnata sul campo. Anzi, sul palco. Non qui e non con questo concerto, ma con una carriera autentica e schietta. E l’essere schietti paga, a maggior ragione se un giorno ti viene in mente di fare un concerto tra le montagne e i montanari.
Chiudono tutto
Non bisogna esagerare. Trento è una città europea, viva, turistica, avanzata, abituata agli eventi. Ospita una delle università migliori del paese, festival di rilievo internazionale e i diciottenni vi si trasferiscono per costruirsi un futuro, non per isolarsi dal mondo. Però esiste ancora un modo Trentino d’approcciare le cose, una misura nostra nel rapportarci alla vita, questo è certo. Si sono diluiti e si diluiscono, ma ci sono.
Siamo ancora quella terra «graziosa, gaia, linda» che «congiunge nel suo aspetto lo spirito montanaro, un avanzo d’ordine austriaco e il pittoresco del Veneto». Ma non perché l’etichetta di Guido Piovene ci sia rimasta attaccata senza volerlo o per una qualche nostra caparbia difesa identitaria. Direi, piuttosto, perché funzioniamo come il vecchio orologio con il quale Luca D’Andrea ha descritto l’Alto Adige: «Rotelline che girano vorticose, incastrate perfettamente ad altre che a loro volta muovono ruote più grandi e lente. Se osservi quelle più piccole (…) sembra quasi che siano troppo rapide da poterci stare dietro. (…) Se invece guardi le ultime, quelle più lente e grandi, (…) dopo un po’ avrai l’impressione che siano immobili e che l’orologio sia rotto». Terre e comunità dove alcune cose sembrano cambiare rapidamente e altre non cambiare mai.
Quindi sì, d’istinto tendiamo a rispondere no. A scongiurare la novità e a preservare il consueto. Vale per Vasco, ma vale anche se ci invitano inaspettatamente a cena. «Sono quasi le sette, ti fermi?» – «No no, devo andare» – «Senza complimenti?» – «Sì, mi aspettano a casa». Il che non è sempre vero, e di fatto capita poi che a casa per cena non torni, che ti fermi lì. Però di primo acchito tiriamo il freno, poi se accettiamo può finire che si faccia molto tardi, che si scenda dall’appartamento in cantina, dove botti e alambicchi non ci sono più, ma bottiglie e salami sì, magari non appesi ma in frigo. Sono cose che succedono ancora, poco a Trento, di più nei paesi.
E Trento non è solo di chi vive in città, ma è anche di alcune migliaia di persone che nel capoluogo si riversano ogni giorno, dai comuni attorno e dalle valli, per lavorare e «andar per carte» (adempiere alla burocrazia). Ogni giorno ma non ieri: «perché c’è il Vasco» – l’articolo davanti al nome è una consuetudine alla quale non deroghiamo nemmeno per il Komandante – «e a chi può gli han detto che è meglio se sta a casa anche giovedì» – “gli”, da noi, è (mamma) Provincia, onnipresente e onnipotente tanto da offrire a Vasco il conferimento di una onorificenza ad hoc pur di averlo qui –, perché «chiudon tutto», «arrivano in talmente tanti che han preso parcheggi fino a Riva [del Garda]».
Il concerto di Fugatti
Nel nostro miscuglio di contemporaneità e riservatezza, di relazioni internazionali e antiche abitudini, di voglia di far festa e piacere per la moderazione, il concerto di Vasco è caduto come un meteorite. Per la prima Giunta provinciale a trazione leghista – da queste parti il centrodestra non aveva mai vinto, unica patria democristiana del nord a non aver ceduto nemmeno al Berlusconi dei tempi d’oro –, il botto atteso era quello grandioso e positivo di uno dei più importanti avvenimenti musicali dell’anno.
Per le opposizioni, il rumore generato dalla notizia era quello fastidioso e strumentale di un fuoco d’artificio acceso per sviare l’attenzione da una prima parte di legislatura non proprio memorabile. In questo tiro alla fune, nei tanti vigorosi strattoni durati alcuni mesi e nei vari forzuti che si sono un po’ alla volta aggiunti a dare man forte di qua e di là – va detto – Vasco Rossi non è stato toccato. Anzi, è stato protetto da una sfera di rispetto che il benzinaio esplicitava cristallino – «…però, Vasco!» – e maneggiato con grande cura e affetto.
Qualcosa di simile (e ribadisco: di simile, non uguale) è accaduto nel 2018 per l’adunata degli Alpini: un po’ di nasi storti per il sicuro guazzabuglio, ma soprattutto benevolenza e orgoglio. Maurizio Fugatti, presidente della Provincia e grande fan del rocker, ha cercato di raccontare le critiche rivolte a lui come fossero indirizzate al cantante, come il segno di una degenerazione verso l’inospitalità, la prova che le opposizioni fossero pronte a sacrificare tutto e tutti pur di attaccarlo, l’inequivocabile adesione delle minoranze al “partito del no”. Un espediente che non ha funzionato granché, ma che lascia aperta una domanda: se il problema non era Vasco né un’autoctona e irriducibile idiosincrasia alla baraonda, perché tutto questo lamentarsi?
C’è chi dice no
Per diverse ragioni, in verità anche piuttosto serie. Perché l’area di San Vincenzo, l’enorme lotto di 27 ettari scelto e allestito per il concerto, era un terreno agricolo espropriato ai privati per costruirvi caserme. Uno spazio prezioso, in piano (rarità!), che nella speranza di molti, tramontato l’uso militare, doveva tornare a coltivatori e coltivatrici, prediligendo magari quelli più giovani o i dediti al biologico. Un proposito contro il quale ora cozzano le grandiose, costose e apparentemente poco temporanee opere realizzate per il super-concerto.
Poi per ragioni di soldi. Perché la Provincia di Trento, poco avvezza a simili intraprese, ha stipulato un contratto meno vantaggioso rispetto a Modena (o a Lignano Sabbiadoro), dove l’evento ha portato (e porterà) copiose entrate nelle casse pubbliche.
E anche per ragioni di sicurezza, perché le difficoltà logistiche e di mobilità, in una valle stretta come quella dell’Adige, sono parecchie; e le strade, l’autostrada, il fiume, la ferrovia sono complicazioni gravi per chi deve studiare vie d’accesso e di fuga, barriere di sicurezza e spazi antipanico. Complicazioni per le quali qualche «no» dalle strutture provinciali è arrivato, «no» preliminari, certo, anche perché chi li ha formulati è stato sollevato dall’esprimersi sui definitivi.
Infine per l’idea di cultura, d’intrattenimento e di spettacolo che rivela. Un’attrattività mordi e fuggi, basata su enormi e dispendiosi flussi di persone che si esauriscono in 24/48 ore duplicando, con tutto quello che comporta in termini di disagi, rifiuti, pressione sul territorio, la popolazione locale.
Tutte cose vere. Tutte cose giuste. «…però, Vasco!».
Però Vasco…
Ed è proprio così. Conosco più di una persona che non ha comprato il biglietto perché in accordo con i punti di questa requisitoria, perché si riconosce nei problemi sollevati, nelle speranze rimandate, nel rammarico per una politica che sembra voler prendere a prestito modelli di altri per colmare il vuoto di idee e programmazione. Eppure, nei giorni scorsi, anche i più arcigni fischiettavano Vasco. Al lavoro, in pausa caffè, sui corridoi.
C’erano citazioni di Vasco sparpagliate nelle mail di lavoro, nelle chat della pallavolo, nelle lezioni in classe. Un climax emotivo che ha fatto vendere biglietti fino a poco prima del concerto, e che si è concluso in un boato liberatorio quando il settantenne più rock d’Italia è comparso sul palco e Stef Burns ha attaccato il primo riff di chitarra. Un’ondata di energia autentica e generosa. Un’esibizione quasi commovente, non fosse che Vasco, su quel gigantesco palco, è sembrato sempre così forte e in controllo.
Sfilando per tornare a casa, incontro un amico che non doveva esserci. Da settimane, civile ma risoluto, rilanciava appelli e critiche alla Provincia. Sorride come si sa sorridere dopo un concerto come questo, in modo un po’ ebete e frastornato, ma profondamente felice. Mi dice che l’epifania lo ha colto il mercoledì prima, mentre annaffiava i fiori alla finestra. Un’eco lontana, due strofe di Stupendo abbozzate in una prova pomeridiana. L’indomani la corsa a procurarsi un biglietto. «Non ho mica cambiato idea – mi dice risoluto – ho solo deciso che Vasco non me lo potevo perdere». E forse ha ragione due volte.
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