- Un anno fa, la notte tra il 12 e il 13 novembre, Venezia è stata colpita dalla prima di una serie di acque alte che hanno allagato case, negozi, edifici. Di quelle giornate di un novembre infinito, si riporta l’intima testimonianza di chi le ha vissute.
- Venezia conosce le maree e nel giro di tre giorni era tanto dolente quanto operativa: pronta a cercare di recuperare le perdite economiche subite, impossibilitata a farlo a causa del panico collettivo che l’aveva dipinta come città distrutta.
- Poi sono arrivati il contagio, la chiusura, la fine del turismo come lo abbiamo conosciuto finora.
Il 13 novembre dell’anno scorso la vita era un posto diverso per tutti. All’epoca vivevo a Venezia e lavoravo con le affittanze turistiche già da qualche anno. Iniziavo a essere molto stanca ma, al contempo, non lo ero mai veramente della città, persistendo nel coltivare la prospettiva di riuscire, chissà quando, a mettere nella laguna radici da mangrovia.
Quel giorno mi sono alzata e ho infilato stivali di gomma troppo bassi. Ricordo le facce smontate da sonno e tristezza di chiunque incontrassi per strada. Ho aiutato una studentessa a tenere la sua valigia carica di libri sollevata da terra perché arrivasse asciutta fino a casa.
Ho trascorso l’intera settimana a seccare i circuiti di un frigo e di un’asciugatrice con l’ausilio di un phon. La cosa che ricordo meglio, però, è la buccia di una banana che mi galleggiava tra i polpacci. In quel momento pareva dire tutto il necessario sui 187 centimetri di acqua sopra il livello del mare che, la notte del 12 novembre, avevano occupato gran parte della città.
Adesso non vivo più a Venezia e mi sto anche imponendo di non visitarla, per evitare rischi di contagio non necessari. Allora, dato che non posso vederli, ho chiamato alcuni amici, e a un anno di distanza ho chiesto loro di essere i miei occhi.
Tiziana
Quando Tiziana risponde al telefono e le dico ciao, come stai, lei risponde: «Mi annoio, non c’è nessuno». Vende giochi di magia, articoli per giocoleria e maschere di carnevale artigianali che definisce «un po’ psichedeliche un po’ fetish».
Per quattro anni ha lavorato in una bottega storica, poi è approdata come commessa in questo negozio pressoché unico in città e, ad agosto 2019, ha fatto il grande passo: rilevare l’attività diventando socia unica.
È stata lei a introdurre le maschere, con il progetto di creare un laboratorio a tutti gli effetti; «Il progetto c’è ancora, ma al momento faccio più che altro mascherine anti-Covid cucite da me. Ieri per una bambina ne ho fatta una stupenda con Frozen».
Le chiedo di raccontarmi di nuovo la notte del 12 novembre. Dice «quella sera mi sono attrezzata alzando ogni oggetto danneggiabile dal pavimento, ho fissato le paratie di acciaio all’ingresso e installato la pompa idraulica».
Di primo acchito può sembrare una cronaca da fine del mondo, ma queste pratiche sono normale amministrazione per chi ha un’attività a Venezia, o per chi vive al piano terra.
«Però non c’era niente di normale» prosegue Tiziana «ero immersa in questo flusso continuo, dicevo non può oltrepassare la paratia, non possono essere più di 180 centimetri. Invece lo erano. Allora ho staccato la corrente, stappato una bottiglia di vino e offerto un brindisi ai negozianti vicini. Non c’era nient’altro da fare».
Lei che ha i capelli verdi e la giacca viola, che evita i pensieri negativi e ha sempre un sorriso, quando nei giorni successivi sentiva la sirena dell’acqua alta non riusciva a non piangere. «In questo senso la mia iperfamiglia, cioè i miei coinquilini e amici, sono stati essenziali, perché qua non ho parenti e da sola sarei stata persa».
Scrivo spesso di perdita e altrettanto spesso ci penso. La perdita è inevitabile e va in giro assieme alla mancanza. Questo è noto, a volte però sottovalutiamo come l’elaborazione di uno strappo non è cosa che riguarda solo la morte.
Si perde un lavoro, una casa, un progetto, un ruolo nella società, dei risparmi, un investimento, una relazione, un sogno, la direzione. L’acqua che ha riempito Venezia quella sera e – in misura minore – nei giorni a venire di un novembre infinito, ha portato via molte di queste cose.
Francesco
Lavora in un grande ristorante che ha sede a due passi da Piazza San Marco, un locale su due piani interamente vetrato che ha l’aria di un acquario perfetto. Ci ho lavorato anch’io per qualche anno ed è così che ci siamo conosciuti.
Mi racconta che il 12 novembre era in cucina per il turno di chiusura, ma alle nove i clienti erano già stati allontanati, le porte sbarrate e tutto il personale era salito al piano superiore.
Dall’alto si assisteva al doppio spettacolo offerto dalle vetrate e dagli schermi dei cellulari: da un lato l’acqua non smetteva di salire, accompagnata da raffiche di vento che la facevano sembrare un fiume, dall’altro le previsioni del centro maree peggioravano di minuto in minuto.
«Del ritorno a casa ricordo le passerelle di legno che galleggiavano sul Canal Grande come fossero zattere». Oggi che la città è svuotata da mesi di pandemia, Francesco si dice stanco e pronto a lasciarla appena sarà possibile.
Rispetto alla monocultura del turismo e alle sue fragilità dice «io vengo dalla Lombardia, è come il fatto che decine di migliaia di persone lavorano a Milano ma dormono fuori e ogni giorno si spostano in massa. La chiamo monocoltura del pendolarismo, in pratica viviamo in un sistema globale che esula dalla normalità pensando di essere normale».
La normalità è un concetto impossibile. Durante il lockdown la mia dirimpettaia mi salutava legando un drappo rosso alle finestre. Io le rispondevo sventolando la shopper della mia libreria del cuore. Anche quella era di colore rosso e sopra c’era scritto “Don’t look for love, look for books”.
Questa forma di comunicazione priva di parole per qualche motivo mi faceva pensare a una raccolta di poesie di Alessandro Burbank, poeta veneziano, che si intitola Salutarsi dagli aerei (Interno poesia, 2018). È un po’ di tempo che mi pare che sia tutto così, un cercare modi nuovi di comunicarsi nuovi concetti, come quello di sentirsi non più così sicuri di se stessi e del proprio ruolo nel mondo, spaventati. Salutarsi dagli aerei sventolando drappi rossi.
Giulia
Quando la sento mi dice «finalmente sono a casa, dopo l’ennesima giornata in balia dei colori delle regioni». Lei lavora in un’osteria di quartiere molto amata dagli autoctoni, e non ha dubbi nell’affermare che l’inizio della fine è stata proprio la cosiddetta acqua grande.
Allora si trovava in Spagna in un tentativo abortito di cambiare vita, ignara che il cambiamento massivo sarebbe arrivato da tutt’altra parte rispetto all’iniziativa personale. «Ricevevo messaggi, vocali, foto, inizialmente ironici e per nulla allarmati. Poi la situazione è precipitata e sono dovuta tornare di corsa. Nel locale galleggiava verdura, il freezer era rotto, i divani erano da buttare».
Uno dei più grandi problemi che si è trovata a fronteggiare la città nei giorni seguenti è stata una campagna stampa nazionale e internazionale maldestramente gestita.
Si è parlato di alluvione, di inondazione, di uno stato di allagamento permanente, di pericolo per l’incolumità dei visitatori.
Ma Venezia conosce le maree e nel giro di tre giorni era tanto dolente quanto operativa: pronta a cercare di recuperare le perdite economiche subite, impossibilitata a farlo a causa del panico collettivo che l’aveva dipinta come città distrutta. Poi sono arrivati il contagio, la chiusura, e la fine del turismo come lo abbiamo conosciuto finora.
Giulia racconta che «noi lavoravamo soprattutto con studenti e residenti, dunque potevamo cavarcela. L’ombra del virus sembrava una cosa lontana. I primissimi casi avevano un nome, un cognome, una storia, a volte anche ricamata un po’ in stile Domenica In o Pomeriggio 5. Poi all’improvviso sono diventati tutti numeri e senza nemmeno accorgercene siamo arrivati a febbraio, e alla chiusura anticipata del Carnevale».
Se non conoscessi la mia interlocutrice a questo punto mi aspetterei il crollo, la chiosa drammatica. Invece dice «Io, la chiusura, l’ho vissuta benissimo. Dopo anni di mestiere stavo facendo i conti con i dolori, il sonno, le preoccupazioni, i bilanci. Finalmente potevo stare a casa e fare tutto quello che avevo rimandato. Il rovescio della medaglia è stata una cassa integrazione misera, se non avessi potuto sospendere il mutuo non sarebbe bastata per pagarne neanche la metà».
Mose
A un anno di distanza, la grande opera fatta di enormi barriere che sollevandosi dalle acque bloccano la maree e impediscono l’allagamento, è stata attivata e – nello sconcerto generale – ha funzionato.
Il Mose è un’infrastruttura di cui si parla dalla fine degli anni Ottanta, i cui lavori sono iniziati nel 2003 e costati milioni di euro. Il sollievo per il suo insperato funzionamento è palpabile quanto la diffidenza, tutti mi dicono «quando arriva l’annuncio che l’acqua si alzerà, noi continuiamo a seguirla alzando le cose da terra, non vogliamo rimanere fregati come l’ultima volta». Il 12 novembre 2019, infatti, le previsioni sono state incerte e tardive, troppo per poter fronteggiare una situazione di cui non si era vista portata analoga dal 1966.
Cambiamento
Nei tarocchi la morte è l’arcano numero 13. Si tratta di una carta che rappresenta il cambiamento, la prova iniziatica e il passaggio a un nuovo stato. Non per forza indica qualcosa di negativo, molto dipende dagli arcani a cui è abbinata.
In questo caso diremo che da novembre 2019 in poi, per Venezia, è uscito un abbinamento di difficile interpretazione. Io ho risolto i dubbi con piglio radicale, me ne sono andata e non so se tornerò. Francesco – insieme a chissà quanti altri – vuole farlo quanto prima, Giulia non ha timore a dichiararsi più povera ma anche più felice. Tiziana – che gli arcani li vende – ha deciso che lei, d’ora in poi, il Capodanno lo festeggerà sempre il 12 novembre.
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