- Il fotografo e regista Timothy Greenfield-Sanders intervista in esclusiva su Domani Blake Gopnik, autore della più completa biografia scritta su Andy Warhol.
- «Talvolta poteva essere geloso e complicato. Ma Warhol era estremamente indulgente verso l’eccentricità, perché amava gli eccentrici. Capiva che era quello che rendeva la vita interessante».
- «In Europa, Italia compresa, hanno preso Andy molto più sul serio di quanto non lo abbiano fatto negli Stati Uniti, in parte perché, penso, avevano minor accesso allo sciocco Warhol dei media. Qui da noi la gente è stata sommersa da Warhol con il dito sulle labbra che fa il finto tonto. Penso sia avvenuto meno in Europa».
Nel 1967, il mio vago interesse per Andy Warhol esplose con l’uscita del primo album dei Velvet Underground. Warhol era il produttore del disco.
Negli anni ho letto molti degli innumerevoli libri su di lui. La maggior parte era confusa e disorientante.
Finalmente, con la pubblicazione della biografia scritta da Blake Gopnik, abbiamo un capolavoro degno di Warhol. Il libro mi è piaciuto così tanto che ho contattato Blake Gopnik per questa intervista. La prima domanda che gli ho rivolto riguarda il suo interesse per Warhol e in che modo questo interesse si è trasformato in un progetto di otto anni e in un libro di più di 900 pagine.
«La mia precoce dedizione a Warhol – mi dice – inizia nel bagno di casa della mia infanzia. Avevamo un poster di una Marilyn di Warhol alla parete. Così ho trascorso un tempo considerevole, dall’età di sei anni, seduto a guardare una Marilyn di Warhol. In seguito, diventato critico d’arte, non è stato più possibile evitare Warhol: ti ritrovi a scrivere di lui almeno due volte l’anno. Ero interessato a lui ed ero più indulgente nei confronti dell’ultimo lavoro e di alcune sue opere non classiche di quanto non lo fossero altri critici. All’inizio del 2012 mi è apparso chiaro che era necessaria una seria, solida biografia. Non c’era una biografia realmente completa, perché i documenti non erano mai stati resi disponibili. Nel 2010 mi sono reso conto che i documenti erano consultabili – gli archivi non sono stati catalogati, più che altro inventariati. Era l’occasione per fare la biografia più completa di Warhol».
Ti è stato dato accesso illimitato?
Al Warhol Museum, che custodisce gli archivi, erano entusiasti della mia idea. Così ho trascorso un numero incalcolabile di giorni, settimane, lì in archivio, che è uno dei posti più incredibili del pianeta.
La ricerca per il libro ti è sfuggita di mano?
Non ci avrei messo circa otto anni a scriverlo, dalla prima ideazione alla pubblicazione. Non pensavo di essere un fanatico o un appassionato di Warhol. Quando ho iniziato, pensavo semplicemente che sarebbe stato interessante, e che lui lo meritava. La reale portata del suo genio mi è apparsa mentre lavoravo.
Un pericolo che corrono i biografi è quello di finire per canonizzare il personaggio che stanno studiando, ma può accadere anche l’opposto, che finisci per odiarlo. Andy non era sempre un essere umano perfetto, ma era sempre un artista perfetto. Ritengo che fosse più intelligente di quanto si pensi.
Io sono un suo grande fan. Ho sempre creduto che fosse più intelligente di quanto si ritenga. Aveva una straordinaria capacità di parlare per enigmi, con tali sfumature di significato! Non era come il giardiniere interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino.
Ogni qualvolta è stato necessario far prendere alla sua arte una direzione interessante, ha intuito che cosa fare. Ci sono stati dei tempi morti nella sua carriera, ma era così incredibilmente intelligente da immaginare che cosa era interessante e cosa non lo era. È di questo che si tratta.
Inizi il libro con la coinvolgente descrizione di Andy a cui hanno sparato e che rischia di morire. Non avevo mai letto i dettagli dell’operazione. Raccontami del medico italiano, Giuseppe Rossi, e di come ha salvato la vita a Andy.
È una storia incredibile. Ho avuto la fortuna di essere invitato da John Ryan, uno storico della chirurgia, a un’intervista con il dottor Rossi, il medico che salvò la vita a Warhol. Quando siamo entrati in casa di Rossi, sulla parete c’erano sette serigrafie di Marilyn! Rossi era arrivato negli Stati Uniti subito dopo la Seconda guerra mondiale e aveva avuto una straordinaria formazione nel nuovo campo della chirurgia a cuore aperto.
Rossi aveva un forte accento italiano e in pratica nessuno lo avrebbe assunto. Ecco, un immigrato italiano che non parla bene inglese… primi anni Cinquanta. Finisce per fare il medico a tempo determinato a Harlem, dove vede molte ferite da arma da fuoco. Rossi diviene uno specialista sia in chirurgia toracica sia in ferite da arma da fuoco.
Warhol viene portato in ospedale dopo essere stato colpito, intorno alle 4:30 del pomeriggio del 3 giugno del 1968. Casualmente Rossi è lì che visita un altro paziente, quando l’interfono si accende per un codice blu. Rossi si precipita al pronto soccorso per vedere se può essere d’aiuto. Tutti gli specializzandi pensano che Warhol sia morto. Rossi dice: «No, questo tizio è ancora vivo, le sue pupille stanno reagendo».
Sei stato proprio il primo a parlare con Rossi dell’operazione?
I giornalisti hanno parlato un po’ con lui subito dopo l’operazione, ma non aveva mai raccontato la storia nei dettagli. La verità è che non è stato merito mio. Non sapevo cosa chiedere. Ci sono andato con il dottor Ryan che era in grado di capire ogni taglio fatto sul suo corpo. Ryan era un illustre chirurgo in pensione, un chirurgo toracico, nientemeno, che poi è diventato uno storico della chirurgia che ha fatto ricerche su grandi operazioni, perciò sapeva cosa chiedere a Rossi.
E questo è stato fondamentale. Ryan aveva le foto delle cicatrici e diceva: «Perché hai tagliato qui? Questo non ha senso». E Rossi rispondeva: «Beh, non avevo idea da dove partisse l’emorragia. Dovevo solo aprire quel tizio. Pensavo fosse sul lato sinistro e ho aperto lì, ma era su quello destro».
Il corpo e le cicatrici di Warhol ci sono ben noti grazie alle fotografie.
Il corpo di Warhol è importante per capire. Già dall’infanzia, quando soffriva di alcuni sintomi di corea di Sydenham, si portava dietro la coscienza del proprio corpo. Si potrebbe scrivere un intero libro sugli effetti di questo sul suo lavoro.
A proposito di corpi, quale corpo di opere di Warhol pensi sia stato il più radicale?
Tutto comincia con le lattine di Campbell’s Soup. Nel luglio del 1962 questi quadri erano molto più radicali di quanto non lo siano state le Brillo Boxes nella primavera del 1964. Il mondo dell’arte si muoveva così rapidamente in quei giorni che già nella primavera del 1964 la gente capiva quale fosse il significato di quell’azione. Ma nel luglio del 1962, mostrare 32 dipinti della Campbell’s Soup, che erano immagini completamente prive di commento, fu una mossa davvero radicale, ed è lì che tutto ha avuto inizio.
Si potrebbe dire che per Picasso era Guernica e per Warhol le Campbell’s Soup? Se Picasso ne avesse un’altra, diciamo Les Demoiselles d’Avignon, quale sarebbe la seconda opera più radicale di Warhol?
Se ce ne fosse una seconda, potrebbero essere i cosiddetti Race Riot. I lavori sulla morte e i disastri sono molto importanti, perché dimostrano che nell’arte di Warhol c’è qualcosa in gioco che va ben al di là del divertimento.
Quale corpo di opere diresti che è il peggiore? A me in pratica piace tutto.
Non mi piace tutto. Ma dipende da quello che intendi dire, perché è un errore vedere Warhol essenzialmente come un artista estetico, un artista retinico. È un concettualista, e talmente intelligente da far percepire la sua peggior arte come arte importante giocando con l’espediente dell’arte su commissione e facendo pensare che il suo lavoro fosse sempre sold out.
E che mi dici dei ritratti su commissione? Come li giudichi?
I ritratti su commissione sono buoni in senso tradizionale perché penso che siano come quelli di Goya. Le persone pensano che siano lusinghieri, ma ritengo che non lo siano affatto. Mettono in mostra la superficialità attraverso immagini superficiali.
Quindi, in risposta alla mia domanda: qual è il lavoro peggiore?
Le peggiori potrebbero essere le toys prints dell’ultimo periodo.
Terribili. I colori sono orrendi. Eppure mi piacciono!
Beh, sì, Warhol non aveva paura di usare colori brutti. Ma il fatto è che sono oggetti di scena molto importanti nella sua performance da artista che fa il sold out, che è sempre stata solo una performance. E a presentarsi così inizia presto.
La gente pensa che il suo lavoro abbia fatto sold out nel ‘62, con la pop art, ma allora non guadagnava un centesimo: la pop art è stata un business fallimentare. In realtà la maggior parte delle cose che ha fatto, compresa Interview Magazine, era in passivo quasi tutti gli anni, ma gli ha permesso di fingere di essere un artista che fa sold out. Il che è una cosa piuttosto strana da voler fingere.
Sei convinto che questa fosse la sua intenzione? Che ci fosse un disegno nel presentarsi in questo modo?
Beh, è complicato. Le intenzioni di un artista sono sempre difficili da capire o scoprire. Penso avesse un tipo particolare di intelligenza, l’intelligenza artistica. Quindi si può affermare che sapeva cosa stava facendo.
Il tuo libro mi ha dato la sensazione che Warhol fosse molto indulgente. Alcune persone come Gerard Malanga, Brigid Polk Berlin e altri, che si erano allontanate, Warhol le lasciava tornare, come se nulla fosse.
Talvolta poteva essere geloso e complicato. Ma Warhol era estremamente indulgente verso l’eccentricità, perché amava gli eccentrici. Capiva che era quello che rendeva la vita interessante.
Nel tuo libro non hai permesso di farla franca a nessuno di quelli che hanno detto qualcosa di Andy solo perché pensavano che fosse vera. Hai controllato ogni dettaglio. Nella nuova produzione di Netflix che ho visto, vengono dette molte scemenze. La verifica dei fatti è ben scarsa.
La memoria umana è ben strana. Quello che ho scoperto intervistando queste persone è che avevano creato una serie di miti che hanno legato alla loro stessa esistenza. Miti che hanno assorbito come fatti che sono stati capovolti nel corso degli anni e di cui sono state dimenticate alcune parti. Tutti quelli che ho intervistato e che avevano già parlato molte volte di Warhol avevano raccontato la stessa storia in venti modi diversi, con fatti sostanzialmente diversi.
Per inciso, ho appena terminato di leggere Watergate: A New History di Garrett Graff, un libro straordinario. Graff è stato scrupoloso nel controllare e ricontrollare, constatando che molti dei libri scritti dalle persone finite in galera erano pieni di errori.
In Warhol tutto è mito. Non avevo proprio intenzione di demolire il mito. Volevo presentarli per quel che erano: miti di vitale importanza.
Ti soffermi molto sulla vita sessuale di Andy, e in modo molto esplicito.
Beh, farlo era estremamente importante per combattere una sorta di omofobia latente che ritengo circondi Warhol. L’idea che fosse asessuale è, secondo me, completamente omofoba. Semplicemente la gente rifiuta come ripugnante l’idea di due uomini a letto insieme.
È stato importante per me precisare che aveva degli amanti e riportare alcuni dettagli. Devo dirti che avrei potuto riportare molto di più. Essere gay, essere queer, era fondamentale per la sua arte e per il suo modo di essere nel mondo. Quindi avevo davvero bisogno di riportare questo aspetto con la stessa accuratezza di qualsiasi altra cosa.
Ci sono stati altri libri che ti hanno incoraggiato a muoverti in questa direzione?
C’è un’enorme quantità di letteratura di teoria queer su Warhol. Per ovvi motivi è un eroe della cultura gay. Sono stato fortunato a parlare con le persone con cui è andato a letto negli anni Cinquanta, persone fantastiche che erano ancora vive.
Hai avuto modo di parlare con Robert Pincus-Witten prima che morisse? Robert era uno dei miei più cari amici. Era tipico di Robert raccontare della vita sessuale di Andy.
Robert era una persona intelligente, davvero intelligente. E Andy, chiaramente, non era asessuale.
Il capolavoro di Lou Reed, Songs for Drella, riesce a raccontarci tanto di Andy con una dozzina di canzoni. L’hai ascoltato molto?
Non direi che fa parte della mia riflessione. In realtà è molto importante per mia moglie, che è un’artista. Sono principalmente un tipo da Bach e Mozart. Penso che Songs for Drella sia spesso frainteso come negativo riguardo ad Andy. Penso che, nel complesso, non ci si accorga che Lou aveva una visione molto positiva di Andy.
Lou è stato molto chiaro con me su quanto amasse e rispettasse Andy. Songs for Drella è un ottimo esempio della capacità di Lou di prendere grandi idee e sintetizzarle in concetti più semplici. Small Town, Style it Takes, Work, Open House entrano nel cuore di Andy.
The Velvet Underground sono incredibilmente importanti, anche più di quanto la gente capisca. Li vedo come una parte molto importante dell’avanguardia degli anni Sessanta. Andy capì che non erano solo una rock band amatoriale. Si rese conto che erano interessanti tanto quanto lui.
Che genere di collezionista era Andy?
La gente pensa alle biscottiere, ma Andy era un serio collezionista di grande arte. Ha comprato alcuni dei primi Richard Serra, Chris Burden e Joseph Kosuth. Collezionava proprio l’arte d’avanguardia più radicale degli anni Sessanta nello stesso momento in cui veniva realizzata. E di questo si è proprio persa traccia alla grande.
Jasper Johns non ha comprato Andy agli inizi?
Andy ha comprato Jasper e poi Jasper ha comprato Andy. Ha capito quanto fosse valida l’arte di Andy.
Una volta sono andato a trovare Jasper a casa sua e mi è piaciuto molto vedere le Brillo Boxes di Andy posate lì sul pavimento. Jasper le aveva comprate alla prima mostra.
Sì, ne è stato davvero un collezionista della prima ora. Incredibilmente, Jasper fu l’unico ad acquistare uno dei dipinti Rorschach quando Andy era in vita. Uno bianco su bianco.
Che ne pensi della docuserie di Netflix The Andy Warhol Diaries?
Sono rimasto piacevolmente sorpreso, fermo restando che praticamente ogni singolo fatto e intuizione che contiene è riportato nel mio libro pubblicato due anni prima. Ma non è questo il punto. Ho pensato che mostrasse che Andy era per certi versi più normale di quanto crediamo. Era un romantico. Voleva amore. Voleva le stesse cose che molti di noi vogliono.
La docuserie è molto precisa riguardo a lui come persona in quell’epoca. Ciò che tralascia, ovviamente, è il brioso Andy, il divertente Andy, la figura non tragica, che è altrettanto importante. Tralascia il suo grande talento artistico. Non credo che dia davvero un’idea del suo genio.
Come non dà il senso della sua arte.
No, non si occupa dell’arte. Ma ci sono abituato. È un difficile equilibrio. Anche il mio libro volevo che si occupasse molto di più dell’arte, ma si trattava di una biografia. Quando si fa una serie documentaristica è complicato trovare un equilibrio. Ma è importante che quelle storie sulla sua sessualità siano raccontate.
Ho pensato che l’intervista a Bob Colacello fosse straordinaria.
Sì, appare come la persona più intelligente lì. In realtà è diventato sempre più saggio. Alcuni intervistati erano imbarazzanti. Alcune delle persone che fingevano di conoscere Andy, in realtà, avevano avuto a malapena contatti con lui.
Jeff Deitch ripete la storia che Jasper e Bob Rauschenberg erano imbarazzati da Andy, la femminuccia. Da dove nasce questa scemenza?
La si deve tutta a Emile de Antonio. Poi è stata inclusa in Popism, un libro che non si basa sul pensiero di Andy. È una raccolta di interviste successivamente volte in prima persona. Quindi qualcuno dice: «Bob e Jasper hanno sempre pensato che fosse troppo checca» e questo in Popism viene trasformato e presentato come voce di Andy: «Hanno detto che ero troppo checca», dopodiché, diventa ufficiale. Emile de Antonio in realtà era un po’ omofobo. Quindi era lui quello che trovava Andy troppo checca.
Era gay?
No, per niente. Piuttosto il contrario. È stato sposato sei volte o giù di lì. Ci sono appunti di Emile de Antonio su Andy e quel mondo che sono notevolmente omofobi. Ho intervistato Jasper su quella frase e ha detto che era assolutamente falsa.
La gente guarda i documentari come questo che diventano parte della storia di Andy Warhol.
Cose del genere cerco di togliermele dalla mente in fretta perché altrimenti impazzisco. Se mi preoccupassi di tutte le imprecisioni dette su Andy Warhol, semplicemente diventerei pazzo.
Ok, questa è la citazione perfetta!
Andy non se ne preoccupava! Perché dovrei farlo io?
L’ultimo lavoro di Warhol sono i dipinti The Last Supper che furono esposti in Italia.
The Last Supper era una commissione. È stata un’idea di Alexander Iolas. Fu il primo dealer di Warhol, e poi l’ultimo. Iolas stava morendo di Aids proprio in quel periodo. Voleva convincere un gruppo di artisti contemporanei a lavorare sul tema dell’Ultima cena di Leonardo perché aveva uno spazio disponibile proprio di fronte all’originale. Uno spazio enorme. Andy è stato l’unico artista a mostrare interesse, quindi Andy ha realizzato il progetto da solo.
Ne ho visti alcuni nello spazio di Peter Brant vicino al Guggenheim Soho anni fa ed erano magnifici.
Come in tutto ciò che Andy ha fatto, c’è in essi un elemento di critica. Non rappresentano Andy, il fervente cattolico che si avvicina a Dio alla fine della sua vita. Tra l’altro non sapeva di essere alla fine della sua vita. Guardare le fotografie della sala originale, la sala in cui le espose, è esilarante perché mostra solo un’infinità di Ultime cene. Quindi le svuota di significato tanto quanto aggiunge loro significato.
Com’era percepito in Italia Warhol?
In Europa, Italia compresa, hanno preso Andy molto più sul serio di quanto non lo abbiano fatto negli Stati Uniti, in parte perché, penso, avevano minor accesso allo sciocco Warhol dei media. Qui da noi la gente è stata sommersa da Warhol con il dito sulle labbra che fa il finto tonto. Penso sia avvenuto meno in Europa.
Inoltre avevano una lettura di sinistra, e ritengo una corretta lettura di sinistra, di gran parte del suo lavoro. Dopotutto, il consumismo era in discussione in Europa, e il consumismo americano era in discussione in Europa in un modo in cui non lo era negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti una piccola élite ha messo in discussione la mercificazione. In Europa erano i maggiori partiti comunisti a metterla in discussione.
Ci sono state altre importanti sue mostre in Italia che tu ricordi?
La serie Ladies and Gentlemen è un’altra commissione italiana, questa volta di Luciano Anselmino.
È la serie che include l’attivista trans Marsha P. Johnson?
Sì. È stato un progetto straordinario che ora sta ricevendo molta attenzione. C’è una spaccatura tra chi ritiene che sia assolutamente riverente e chi pensa che prenda in giro i soggetti. Io penso che sia totalmente riverente.
Quando mi sono trasferito a New York nel 1970, sono stato introdotto alla “scena” dalla superstar di Warhol, Tally Brown, un’amica di famiglia. Attraverso Tally ho incontrato Warhol, Candy Darling, Holly Woodlawn, Jackie Curtis, Taylor Mead e Jack Smith. Tally aveva recitato in molti dei primi film di Warhol, insieme a Jack Smith, e parlava sempre di quanto fosse importante per lei far parte di quella comunità artistica. Non si trattava mai di soldi. Era quello lo spirito di allora.
C’è un mito che non viene mai demolito quanto dovrebbe: l’idea che Warhol non pagasse abbastanza le persone. Se parliamo degli attori dei suoi film d’avanguardia degli anni Sessanta, l’idea che qualcuno potesse essere pagato un centesimo è assurda. Quello era un lavoro che non avrebbe mai incassato un centesimo e apparire in un film underground in bianco e nero non era qualcosa che si faceva per soldi. A nessuno è mai passato per la mente che sarebbe stato pagato.
Anni dopo, la tariffa per la serie Ladies and Gentlemen fu molto più alta di quella che veniva pagata normalmente ai modelli. Ho calcolato che era dieci volte superiore alla tariffa media percepita dai modelli nel mondo dell’arte. È semplicemente ridicolo lamentarsi del fatto che Warhol non fosse generoso con i suoi modelli.
Quale strada di New York dovrebbe essere intitolata a Andy Warhol?
Ottima domanda. Dovrebbe esserci almeno una targa dove c’era la Silver Factory sulla Quarantasettesima strada... che oggi è un parcheggio dietro un gigantesco edificio. Certamente quell’isolato della Quarantasettesima tra la Seconda e la Terza avenue dovrebbe prendere il nome da Andy Warhol! La Silver Factory è proprio il luogo in cui Warhol divenne Warhol.
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