Adhuoljok è romana. È stata un mese fa nel Sud Sudan per conoscere i parenti, adesso pensa che dall’Italia potrà aiutare la terra che mamma e papà un giorno hanno lasciato. Sylvia e Linda sono sorelle, lombarde di Lecco, i loro genitori sono invece partiti dalla Nigeria, come prim’ancora avevano fatto pure quelli di Loveth, nata a Lodi
Miriam è siciliana. Papà Abdoulaye era arrivato da Abdijan fino a Bergamo, non aveva trovato lavoro, dormiva fuori la sede della Caritas, d’inverno era freddo, lui cercava fortuna, ma che fortuna è questa, pensò, meglio spostarsi a Palermo, dove avrebbe incontrato Salimata, dalla Costa d’Avorio giunta via mare. Adesso queste ragazze sopra i vent’anni portano tutte la stessa maglia azzurra. Adhuoljok Malual e Loveth Omoruyi sono le ultime convocate nella nazionale di pallavolo che si prepara per gli Europei di agosto. Una nazionale dove Sylvia e Linda Nwakalor avevano già raggiunto Miriam Sylla, e insieme a Miriam la più famosa di tutte, la Paola, come dicono a Cittadella dov’è nata, dove i piedi di Egonu sono cresciuti fino alla misura 46 di scarpe. Dove le teneva compagnia il ricordo di un nonno severo, un capo tribù pure lui nigeriano, con la casa al centro del villaggio e tutti in fila a chiedergli un consiglio. Dove ha messo i pantaloncini corti anche se il nonno non voleva, non sta bene per una ragazza, ma non ha mai fatto tatuaggi, perché «preferisco rimanere pura, il corpo donato dal Signore è preso in prestito», ha detto una volta, ed era un’eco delle lezioni di una zia, suora in Vaticano. Hanno tutte le stesse radici in Africa, hanno avuto tutte una culla in Italia e tutte un pallone che passava in aria, da schiacciare a terra. Non è una coincidenza. È un percorso che le figlie degli immigrati compiono spesso insieme, chissà quanto consapevolmente. Una ricerca dell’Istat dal titolo Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni ha spiegato tre anni fa la centralità della pallavolo dentro questo pezzo di società.
La funzione della scuola
Usiamo la formula “seconda generazione”, una soluzione su cui per la verità rifletteva in modo critico Tahar Ben Jelloun ai tempi del romanzo Nadia (1996), a proposito della realtà francese. «Non siamo immigrati. Non abbiamo fatto il viaggio. Siamo nati qui, su questa terra. Siamo i figli di città in transito; siamo arrivati senza che nessuno sia stato avvertito, senza che nessuno ci attendesse; siamo centinaia e migliaia; siamo qui a chiederci perché siamo qui e cosa ci stiamo a far». Nel lungo cammino alla ricerca di sé, sul filo dell’equilibrio tra l’eco delle proprie origini e la sintonia da cercare in un paese che spesso ti respinge, la palla sopra una rete è uno strumento che funziona. Lo studio dell’Istat raccontava che gli adolescenti maschi tendono a conservare le abitudini sportive della terra da cui proviene la famiglia. Più di tre quarti degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado nella comunità di origine marocchina e i due terzi nella comunità albanese scelgono di giocare a calcio. Un figlio di filippini su due sceglie il basket e lo stesso fa un figlio di cinesi su tre. Le arti marziali sono preferite dai ragazzi con origini nell’Europa dell’est, mentre si gioca a cricket tra le comunità di pakistani e cingalesi. Le ragazze no. Tra le ragazze si impone la tendenza opposta. La pallavolo è lo sport più diffuso sia tra le figlie di genitori filippini sia tra le figlie di coppie marocchine, albanesi, peruviane, ecuadoriane. La pallavolo è diventata nella scuola italiana lo strumento di espressione dell’identità e del percorso di integrazione. Ha sorpassato la danza, invertendo così i primi due posti delle preferenze espresse dalle figlie di genitori italiani. Lo ius soli dello sport È già passato mezzo secolo dai primi arrivi in massa di immigrati, se non fosse per lo sport il processo di integrazione sarebbe assai meno evidente, meno compiuto. Da cinque anni a questa parte i minori della cosiddetta seconda generazione hanno superato il milione, siamo nei paraggi del 15 per cento del totale in quella fascia d’età. Tre su quattro sono nati qui. Oltre il 70 per cento è concentrato in sei regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Lazio e Toscana. Ma Paola Egonu ha dovuto aspettare che suo padre avesse un passaporto italiano in tasca per diventare italiana a sua volta. Eppure parlava in dialetto veneto, come le sue compagne di classe. Aveva 14 anni e può dirsi una privilegiata. Molte altre devono aspettare di compierne 18.
Lo ius soli sportivo
Lo sport ha bruciato i tempi, come spesso accade. Ha anticipato la società e ha fatto quel che il parlamento non dispone. Uno ius soli che vale dentro le linee del campo, fra le corsie di una pista, fra le corde di un ring. Ha forzato la mano a deputati e senatori. Sette anni fa ha costretto le camere a riconoscere con una legge l’esistenza di «disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia, mediante l’ammissione nelle società sportive». In sostanza il via libera al tesseramento di bambini non ancora italiani, dall’età di 10 anni, con le stesse procedure previste per i cittadini. Significa che veniva consentito di diventare campioni d’Italia a ragazze e ragazzi che l’Italia non riconosceva ancora come propri figli. I primi furono quelli della boxe, per un’antica vocazione all’accoglienza. Le palestre sono i luoghi dove tuttora le porte si aprono agli ultimi con meno resistenze, a chi sta cercando una casa, una famiglia, una carezza dietro un pugno. La prima campionessa senza cittadinanza si chiamava Dorota Kusiak, arrivata minorenne dalla Polonia a Ferrara, per seguire i genitori che cercavano un lavoro. La cosa buffa è che da cittadina italiana s’è data alla politica, come assessora alla Pubblica istruzione. Per la Lega. Un altro sport povero come l’atletica ha saputo accogliere i figli degli immigrati. La nazionale della mescolanza è diventata un concetto così naturale che cinque anni fa, dinanzi alla foto della 4x400 medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo, con una staffetta composta da Raphaela Lukudo, Benedicta Chigbolu, Libania Grenot e Ayyomide Folorunso, il velocista Filippo Tortu disse: «Sono quattro ragazze nere? Io le conosco da una vita. Non me ne ero accorto». Anche le ragazze della pallavolo non se ne accorgono più. Quando si domanda a Miriam Sylla della nazionale multi-kulti sbuffa: «Ancora?». Il punto è che poi le ragazze escono dal campo e la faccenda si complica, come sa bene Paola Egonu, che attacca a tre metri d’altezza, colpisce a 112 km orari, ma ha avuto la tentazione di mollare la nazionale perché ogni tanto scrolla il telefono e scopre qualche pensiero razzista. Gli editoriali da destra non le hanno perdonato la denuncia e ora chissà perché non le perdonano di essere tornata nel campionato italiano, con un ingaggio milionario, dopo un’esperienza in Turchia. Il muro nella pallavolo lo aveva buttato giù una dozzina d’anni fa Valentina Diouf, milanesissima, padre senegalese, ingegnere. Si presentò in campo diciottenne con la potenza del suo braccio e fece vincere un Mondiale giovanile all’Italia. Non lo sapevamo ancora, ma veniva a dirci che le estati militanti si costruiscono anche negli inverni di sudore, giocando a pallavolo, nella palestra di una scuola. Era un paese che cercava la normalità pure con Nawal Soufi, che salvava migranti a Catania. Hanno fatto più dieci anni di schiacciate che mezzo secolo di convegni.
(pubblicato in origine il 22 giugno e il 23 giugno su carta)
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