L'arte, i film, i selfie, TikTok, e anche lo specchio ogni mattina. Ai visi e in un certo senso al loro uso è dedicato l’ultimo saggio di Riccardo Falcinelli, Visus (Einaudi), un lavoro che dà forma a una storia visuale del volto con chiari riferimenti alla cultura visiva. Più in generale orienta a un’ipotetica idea d’uso delle immagini che vengono prodotte da ognuno di noi, una consapevolezza fondamentale oggi in un’epoca fortemente visiva
«Ci hai mai pensato al fatto che saremo gli ultimi che hanno i ricordi in bianco e nero? Le foto dei nostri genitori, quelle delle vacanze, i programmi della televisione... Ma chi se li ricorderà più? La Nonna del Corsaro Nero... Belfagor... Siamo una tribù in via di estinzione, altro che balle». Così nella notte, dispersi nel deserto africano, Marco (Fabrizio Bentivoglio) si rivolge agli amici e compagni di avventure Ponchia (Diego Abatantuono) e Paolino (Giuseppe Cederna) in Marrakech Express. Il bel film di Gabriele Salvatores è del 1987, il muro di Berlino deve ancora cadere e il colore ha invaso la vita di chiunque, ma le fotografie si fanno ancora in pellicola. I ricordi in qualche modo si stanno contemporaneizzando: il colore brucia la forza astratta del bianco e nero e tutto sembra appiattirsi, ma quello che non può prevedere Marco è che da lì a poco più di vent’anni anni con la messa online di Instagram, il social si trasformerà nel più grande contenitore al mondo di memoria privata a uso pubblico.
Una memoria sia a colori sia in bianco e nero, sia fotografica sia video. Una memoria dell’istante che tramuterà noi stessi in visi da ricordare seppur incastonati nelle stories e nei post. E proprio ai visi e in un certo senso al loro uso è dedicato l’ultimo saggio di Riccardo Falcinelli, Visus (Einaudi). Come già in Cromorama e in Figure l’intento di Falcinelli è prioritariamente divulgativo, ma sempre in un’ottica che non scende a patti con la semplificazione, ma che anzi ricerca nella precisione e nell’esattezza una possibilità interpretativa che sia coerente con la contemporaneità e quindi utile (termine quanto mai criticamente sottovalutato).
La raffinatezza teorica di Falcinelli si palesa infatti in un legame stretto con la pratica: l’immagine è il suo uso, e siccome sempre più noi stessi siamo la nostra immagine è bene capirne sia la prospettiva culturale quanto averne consapevolezza, perché chiaramente tutto ciò finisce per definire la qualità relazionale delle nostre vite. Quello che un tempo erano ricordi (pure in bianco e nero), aneddoti visivi che venivano riportati alla luce in una serata intima tra amici ora sono parte integrante di un’identità pubblica e divengono alla portata di chiunque – anche a distanza come avviene in rete – entri in relazione con noi. Una moltiplicazione potenziale delle nostre identità la cui interpretazione si sviluppa a seconda della qualità di interazione e di coinvolgimento, in particolare sui social. Si è in sostanza tutti curatori di se stessi e come tali capaci di innumerevoli e potenziali visi.
Una autobiografia per visi
Ora il lavoro che Falcinelli, uno dei più importanti graphic designer italiani, sviluppa in Visus è quello di dare forma a una storia visuale del volto che contenga chiari riferimenti all’arte come alla cultura visiva, ma più in generale orientare a un’ipotetica idea d’uso le immagini che vengono prodotte da ognuno di noi, ovvero scaturire una consapevolezza fondamentale oggi in un’epoca fortemente visiva. Per farlo è sembra scontato dirlo, ma Riccardo Falcinelli ci mette la faccia, accompagnando i lettori pagina dopo pagina fin dentro alla sua autobiografia a partire dal viso della madre e della zia, ovvero dal viso di due gemelle.
Falcinelli veniva infatti chiamato da bambino il figlio delle gemelle, questo perché sua madre e sua zia non erano distinguibili dagli altri abitanti del quartiere, cosa che invece veniva facile al piccolo Riccardo che aveva evidentemente elaborato una capacità di distinzione che superava anche quella della stessa madre e zia. Ed è partendo da questa differenza/uguaglianza che unisce e distingue la madre e la zia che è così possibile esplorare cosa significa identificare e rappresentare: quale ruolo può avere la fotografia e quale la pittura.
E poi fu Instagram
È chiaro che si è tutti coinvolti in un vortice che ci rende spettatori e attori nello stesso tempo e questo avviene non solo rispetto all’obiettivo fotografico, ma anche rispetto al tempo che passa. È difficile non scrollare le pagine social senza avvertire una forma d’imbarazzo che sia per il tempo che passa e i segni che lascia o per l’ingenuità che solo fino a pochi anni fa portava ognuno a pubblicare scatti senza comprenderne appieno la valenza e l’’impatto. In un tempo in cui il narcisismo è passato da patologia a obbligo sociale diviene così fondamentale capire che ogni volto riprodotto contiene la disperante domanda: «Chi sei tu, nella mia vita?». Domanda che lanciamo mentalmente scorrendo l’instagram della donna o dell’uomo amati domandandoci anche, Ma che davvero? Quel cappello? Quel vestito? E quel trucco?
Già perché sono infinite le modalità e le occasioni in cui ormai la nostra esistenza si è tramutata più che in fotografia e quindi in un meditato ritratto, in un frammento dimenticabile di momenti anche allegri o felici. Scelte fatte sovrappensiero o superficialmente che di certo non rappresentano nulla di noi o così vorremmo pensare, ma che richiedono invece uno sguardo educato (in ogni senso) e rispettoso perché sono in realtà la traduzione di una felicità o anche di una tristezza che porta con sé un percorso esistenziale e culturale. Si tratta così di leggere immagini in quanto parte organica di un percorso di senso più ampio e mai definitivo.
Se ci fosse Goethe
Se i ricordi concorrono ormai pienamente nelle nostre vite non solo a livello inconscio, ma anche pubblico non vanno infatti più considerati come scatole a tenuta stagna, ma come un vero e proprio lievito madre che cambia giorno dopo giorno il modo di vivere di chiunque. Il che rende sempre più difficoltoso capire chi siamo, e forse oggi Goethe più che dirci dove stiamo andando ci direbbe da dove veniamo, perché dire chi sei oggi è davvero la cosa più difficile. E ugualmente risulta arduo riuscire a spiegare ai nostri occhi cosa è un viso, da sempre la cosa più misteriosa al mondo, sia nel caso che ci attragga, sia nel caso che ci respinga.
Visus è una vera e propria immersione romanzesca, in cui il protagonista è il nostro viso, perché inevitabilmente si è portati istantaneamente a trasformare le preziose analisi teoriche e le contestualizzazioni storiche di Falcinelli subito su di sé: sul proprio viso come sui visi che incrociamo per strada. E in tal senso Visus è pienamente e totalmente una guida. Un vero e proprio baedeker che aiuta a destreggiarsi sui marciapiedi delle città, in metropolitana come in aereo, permettendoci di guardare agli altri e a loro visi riconoscendoli un po’ di più. E forse in questo modo permettendoci di comprenderli un po’ meglio, anche perché proprio questa sarebbe non a caso una delle funzioni indotte dall’arte e dalla sua frequentazione. La qualità principale del libro di Riccardo Falcinelli si palesa così nel sapere rendere la storia dell’arte una pratica e come tale non escludibile nell’uso quotidiano, perché evitarla significa oggi disconoscere un percorso che arriva fino a noi e di cui noi siamo parte in quanto comunità, con il rischio evidente di determinare una forma di controllo su noi stessi ben più influente e determinante di quanto mai la tecnica possa in realtà fare, anche a livello digitale.
Rendersi conto di far parte di un flusso dentro al quale le immagini hanno valore in quanto replica, ma al tempo stesso ognuna risulta distinguibile l’una dall’altra ha un valore fortemente intimo capace di rivelare il senso di un sentimento anche nella sua irriducibile irrazionalità. Visus è un testo fondamentale che arriva al cuore della contemporaneità: al nostro viso, certamente sempre riconoscibile, ma che quasi mai riteniamo accettabile. E alla fine non resta in fondo che riderci su visto anche di quanti brutti visi sono pieni i cimiteri frutto ormai di scatti (e non ritratti) tirati via da una festa o da un matrimonio. Come a dire che di fronte alla morte più oscena ancora è l’imperfezione della vita con i suoi colori acidi e le nostre stupide espressioni a testimoniare che è stata proprio una gran fatica capire chi eravamo e provare a esserlo.
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