- Works, l’ultima opera di Trevisan, è precisamente il libro della vita prima della scrittura, il resoconto vorticoso di un’infinità di mestieri, un viaggio personale nei capannoni, nelle ditte, sui tetti, nei negozi, nei comuni, nei ristoranti, negli alberghi del Veneto.
- Il suo è il mondo nascosto delle maggioranze, del lavoro dipendente e della piccola impresa, con qualche rapida ma significativa escursione ai piani più alti della provincia.
- La sua è letteratura nella sua forma più alta, quella in cui la realtà sociale si fonde con la voce personale dell’autore in un gioco di rimandi che trascina il lettore verso un finale che sa di liberazione, a cui non manca però anche una certa tonalità malinconica.
È morto all’età di 61 anni Vitaliano Trevisan. Scrittore, attore, drammaturgo, regista e sceneggiatore Trevisan è stato trovato senza vita nell’abitazione di Crespadoro.
Vitaliano Trevisan è una voce unica nel panorama letterario italiano, cresciuto a pochi chilometri da Vicenza, ha svolto nei primi decenni della sua vita adulta un numero quasi infinito di lavori prima di diventare scrittore e drammaturgo a tempo pieno, togliendosi più di qualche soddisfazione come quella di essere tradotto in Francia da Gallimard.
Works (Einaudi stile libero), l’ultima opera di Trevisan, è precisamente il libro di questa vita, o meglio della vita prima della scrittura, il resoconto vorticoso di un’infinità di mestieri, un viaggio personale nei capannoni, nelle ditte, sui tetti, nei negozi, nei comuni, nei ristoranti, negli alberghi del Veneto.
Una dose di realtà – e soprattutto di lavoro dipendente – inusitata per quell’ambiente culturale italiano che nel libro fa capolino solo all’inizio e alla fine, con i suoi introiti di origine misteriosa, il suo culto surreale delle celebrità e la tendenza a ridurre tutto quello che esiste fuori da Roma e Milano a stereotipo e grottesco.
Di questo già visto – almeno su carta – nell’opera di Trevisan se ne parla poco, il suo è il mondo nascosto delle maggioranze, del lavoro dipendente e della piccola impresa, con qualche rapida ma significativa escursione ai piani più alti della provincia.
Nonostante la conoscenza diretta dell’argomento – o forse proprio grazie a essa – Trevisan rimane però lontano dal documentarismo di denuncia, la sua è letteratura nella sua forma più alta, quella in cui la realtà sociale si fonde con la voce personale dell’autore in un gioco di rimandi che trascina il lettore verso un finale che sa di liberazione, un finale a cui non manca però anche una certa tonalità malinconica.
Una delle scene più importanti di Works si svolge nel periodo in cui fai il lattoniere, forse il lavoro che ti è piaciuto di più fra i molti che hai fatto. Un tuo collega ti chiede di tenerlo con le mani mentre è sospeso sul vuoto e lo fa nel modo più naturale possibile. Se tu lo lasciassi morirebbe e un po’ ti stupisci anche di questa naturalità, di questa fiducia scontata, come fosse qualcosa di cui non avevi mai fatto esperienza prima.
Mi ricordo ancora molto bene anche se sono passati molti anni, eravamo su un condominio piuttosto alto, lui si è sporto, cosa che non si potrebbe fare ma che si faceva normalmente, e mi ha detto tienimi per la cintura, tutto qua. Io l’ho tenuto per la cintura, però insomma bisogna dar fiducia, no?
Quando poi a fine giornata ne parli con questo collega lui ti dice “perché cosa volevi fare? Lasciarmi andare?”. C’è cioè questo contrasto tra te pensatore, riflessivo, e invece lui che non si pone neanche il problema.
Sì, infatti, era così poi con tutti, a prescindere dalle simpatie, poteva capitare di lavorare con qualcuno che ti era antipatico però su queste questioni non c’era mai nessuna perplessità. E capitava spesso di affidare la propria vita nelle mani di qualcun altro.
Di quel periodo dici anche che non c’erano tutte quelle piccole miserie che contraddistinguono la vita d’ufficio. Non c’era quindi solo la questione dello stare all’aperto, cosa che hai sempre molto amato, ma, mi sembra di capire, anche quella di una qualità umana maggiore.
Il lavoro manuale ha questo tipo di caratteristica, a meno che non sia ripetitivo e statico: ti lascia meno tempo per pensare e tutto sommato anche per divagare su questioni che non siano immanenti, per cui c’è anche meno spazio per quella rabbia repressa. Credo che si tratti di questo, tutta la rabbia che uno accumula in un ufficio, lì la sfogavi fisicamente.
Quello è anche un periodo in cui sei riuscito a scrivere parecchio nonostante lavorassi molto.
Vero, vero. Lavoravamo almeno dieci ore al giorno, anche di più nei periodi estivi, essendo un lavoro che si fa all’aperto, eppure non ero comunque così stanco da non riuscire poi a lavorare la sera, una volta a casa.
Colpisce anche perché questo non accade nel periodo di un altro dei lavori principali che hai fatto, quello nella ditta di cucine. Lì fai una rapida carriera però hai paura, scalando ulteriormente, di non avere più le energie per scrivere perché troppo concentrato sui problemi aziendali.
Sì, anche questo lo ricordo molto bene, del resto quella rapida carriera l’ho fatta fallire molto presto, non so quanto volontariamente. Vedendolo da dove sono ora, con il senno di poi, tendeva a tirare fuori di me cose che non mi piacevano molto. Quel potere che si acquisisce salendo, facendo carriera, in qualche modo poi si paga. Perché bisogna venire a patti con la produzione e con il padrone che in quella situazione era una famiglia ma forse non era poi così diversa da una multinazionale.
Da un lato sembra che tu sia colpito dal fatto che, con tutti i suoi difetti, quello è un posto di lavoro in cui comunque è possibile dare un po’ di sfogo all’intelligenza perché ciò che fai di buono viene notato ed è possibile salire nella gerarchia interna e dall’altra ti spaventava proprio la dimensione di famiglia allargata, l’idea dei dipendenti come figli minori a cui al momento della pensione regaleranno un orologio come ricompensa dopo una vita intera spesa per la famiglia proprietaria.
Spaventava e mi spaventa, anche se nessuno mi darà mai l’orologio, questo è escluso, però è così, quel tipo di azienda ha questo aspetto paternalistico. In quel periodo però ci fu anche un dipendente che incominciò ad avere problemi psichici sul lavoro e tutto sommato l’azienda non lo abbandonò, se non quando non era più possibile gestirlo. Per cui c’è questo senso di protezione e di appartenenza, anche quello però se vuoi lo paghi, lo paghi lavorando, facendoti sfruttare.
C’è sempre questo bilanciamento in Works tra la tua condizione di lavoratore e lo sforzo di vedere almeno un po’ anche i problemi degli altri. Non è un libro monodirezionale, benché la tua prospettiva sia chiara e in alcuni punti anche molto forte, descrivi però sempre bene anche quelle che sono le prerogative delle persone dall’altra parte.
Sì, se per altri intendiamo gli imprenditori, quelli che danno il lavoro. Ad esempio, per quanto nella ditta di lattoneria il lavoro mi piacesse, era veramente fatto a grande velocità e senza l’osservanza di quelle che sarebbero le regole di sicurezza a cui ci si dovrebbe attenere. Però è anche vero che se le ditte rispettassero quei regolamenti uscirebbero di fatto dal mercato – adesso non so se le cose siano cambiate, ma non credo più di tanto, vedendo il numero delle morti sul lavoro. Il risultato infatti è quello che sappiamo: molti infortuni, molte morti. Sembra che altrimenti non si riesca a far quadrare i conti...un po’ come il caporalato in agricoltura, o come i rider di cui si parla in questo periodo.
Proprio in quella fase in cui lavoravi per la ditta di lattoneria, ci fu un boom dettato da incentivi legislativi e fiscali e tu noti come di solito si racconti sempre tutto come buoni contro cattivi mentre in quel caso non era chiaro, c’eravate dentro un po’ tutti. In altre circostanze invece sei più netto e lo spieghi anche con il fatto che la tua origine ti fa talvolta vedere le cose attraverso la lente dell’odio e non puoi farci niente, è così.
Forse questo era anche dettato dall’epoca, era il periodo dell’odio di classe, se vuoi. Credo comunque che le classi ci siano ancora, anche se non se ne parla, se non vengono definite, non vengono trattate, e quindi di fatto è come se non esistessero. È anche molto conveniente che non esistano. Quelli erano gli anni Ottanta e Novanta e la trasformazione da questo punto di vista era già in atto, adesso però siamo ben oltre.
C’è una scena che tu racconti da due prospettive diverse sia in Works che in Tristissimi giardini, ed è quella in cui ti ritrovi in un magazzino un po’ improvvisato, spunta l’anziano fondatore dell’azienda e ti ammonisce perché sei fermo dicendo «qui lavoriamo con i secondi». C’è questo contrasto fra il magazzino che cade a pezzi, con le auto dei proprietari parcheggiate dentro e questo vecchietto che dice «qui lavoriamo con i secondi». Io ci ho visto una fase del Veneto e delle sue industrie familiari, gente che lavorava moltissimo, anche se poi alle volte bisognava vedere come.
Esatto, bisogna vedere come. D’altronde però c’è sempre questa contraddizione tra quella che è l’immagine esterna di un’azienda o anche di un bene e poi quello che incontri se vai vedere come e dove questo bene viene prodotto. Spesso questa seconda realtà non corrisponde all’immagine bella, pulita, esteriore del prodotto e quello che trovi invece sono squallore e cattive condizioni di lavoro.
Questo ci porta a uno dei nodi teorici più interessanti di Works: quello della comunicazione. Tornando alla fabbrica di cucine a un certo punto una delle figlie dei proprietari – che ha studiato semiologia – vi costringe – assieme a un architetto di fama internazionale – a usare un compensato marino che non ha senso usare in quel contesto ma ha il vantaggio di poter venire comunicato molto bene dal punto di vista del marketing. Questa è una cosa che torna non solo nel libro ma anche nella realtà di oggi: il contrasto fra i bisogni della comunicazione e quelle che poi sono le cose nella realtà. Un contrasto molto forte.
Fortissimo. Siamo nella società della comunicazione, per cui le ricadute sono notevolissime. La prima è questo scollegamento, questo allontanamento dalla realtà, non a caso si parla sempre di più di realtà percepita, per cui c’è il reale e c’è la realtà percepita e le due cose sono diverse. Sulla realtà ci mettiamo d’accordo e pensiamo che sia questa, diversa cioè dalle cose reali che ci accadono. Magari i fatti possono poi smentire questo accordo, ma questo non intacca la realtà condivisa, quello che percepiamo in modo condiviso.
Un altro personaggio carismatico è “Lui” un architetto presso il quale tu lavori all’inizio del tuo percorso e che ti introduce in un mondo che non avevi avuto occasione di vedere prima anche se poi alcuni di quei temi, come il design, già ti interessavano.
È un momento parecchio lungo del libro perché ho frequentato quello studio per quasi cinque anni, per me era veramente un altro mondo, essendo io uscito da una casta sociale piuttosto bassa. Non che Lui fosse di una classe sociale più alta della mia, era partito più o meno dal basso, tanto che non era neppure laureato, nonostante avesse allora e abbia tutt’ora il più grande studio di architettura della città. Però quello dove Lui era arrivato, e dove io entravo in quel momento, era proprio un altro mondo, un mondo che aveva anche un approccio al lavoro di cui prima non avevo contezza, ad esempio c’era nello studio la possibilità di consultare una biblioteca nuovissima. Era però anche un mondo che faceva molta leva sull’immagine, trattandosi di design e arredamento.
Lì entri in contatto con i “veri ricchi”, finita quell’esperienza però non lì frequenterai più, almeno non nel libro. È una toccata e fuga. E questo nonostante tu abbia sempre avuto in mente di diventare, un giorno o l’altro, uno scrittore e quello fosse un ambiente pieno di artisti o pseudoartisti.
Anche lì bisogna distinguere tra le persone e l’ambiente, perché anche adesso lavorando come scrittore o come drammaturgo ho a che fare con persone di un’altra classe sociale, questo è abbastanza inevitabile, però un conto è l’ambiente, un conto sono le persone: all’interno dell’ambiente si trovano delle persone comunque interessanti. Nella media però è difficile intendersi perché si danno per scontate delle cose che per un altro non sono scontate affatto. Ad esempio avere la possibilità di spostarsi quando lo si desidera, o avere la possibilità di passare per Pantelleria o Roma regolarmente, si ignora cioè che avendo un lavoro fisso queste non sono cose che si possono fare. Ci sono certi lavori, certe professioni che possono essere fatte con un minimo di tranquillità solo se hai qualcosa, o qualcuno, di solido alle spalle.
Ti facevo questa domanda, che potrà sembrare un po’ estemporanea, perché invece c’è sempre un po’ più di distacco nei confronti della classe dei piccoli medi imprenditori vicentini e veneti. Nei loro confronti sei molto più severo, mentre nell’ambiente attorno allo studio di Lui per un momento sembri dire “bè, tutto sommato questi mi stanno più simpatici”.
Sai uno è sempre più severo con quello che gli è vicino e di cui ha avuto esperienza in maniera più diretta. È possibile che il motivo sia questo. Poi è anche vero che in Veneto questa classe imprenditoriale è relativamente giovane, per cui non può certo avere la tradizione che hanno i borghesi o piccolo borghesi che comunque hanno un retroterra ben più lungo, ampio.
In Tristissimi giardini, tu parli del Veneto, di Vicenza in particolare, in un modo che mi ha fatto pensare che quando noi provinciali parliamo della nostra provincia, in genere male, ci dimentichiamo che tutta la provincia ha tratti simili e tendiamo invece un po’ ad appiopparli solo alla nostra. Cosa descriveresti come esclusivamente vicentino?
Questa è una di quelle cose che so, cosa differenzia per esempio un vicentino da uno di Treviso o da uno di Padova, però quando me lo chiedono è veramente difficilissimo spiegarlo. Perché si è molto coinvolti, però è vero che ci sono anche molti tratti in comune. Quando penso a Vicenza mi vengono subito in mente i preti e quello che mi disse mio zio: «Molto servanti ma poco credenti», non so però se si possa dire che sia uno specifico vicentino.
Tu frequenti molto anche il mondo tedesco e uno dei tuoi autori di riferimento è Thomas Bernhard, e lo è in maniera felice nonostante sia il classico autore che in genere viene copiato male. Nel tuo caso invece si vede chiaramente l’ispirazione – tu stesso dici che gli scrittori capaci sono fatti per essere saccheggiati – ma riesci a creare qualcosa di nuovo. Questo è notevole perché le ispirazioni così forti possono rivelarsi distruttive quando non creano un processo creativo nuovo.
Capita che succeda, sì.
Come hai conosciuto Bernhard? Cioè come ti è capitato tra le mani?
Per caso, leggendo prima Il nipote di Wittgenstein, poi da lì lessi tutto quello che riuscii a trovare. Naturalmente conobbi anche il traduttore, che è veneziano, e in qualche modo mi sembra di aver assimilato la lezione.
Qual è il tuo rapporto con il mondo tedesco?
L’ho frequentato più in gioventù adesso tendo a essere molto più statico, forse dovrei preoccuparmene, però questo è anche un periodo in cui muoversi è quasi impossibile. Direi comunque un rapporto buono sia a livello intellettuale che a livello personale, ho degli amici che vivono in Germania, italiani e tedeschi, e fra questi ultimi ce ne sono che ho cominciato a frequentare da adolescente. Il mio primo viaggio in Germania l’ho fatto a 14/15 anni, poi per un periodo mi ci sono ritrovato anche a vendere gelati.
Un’altra tua grande influenza è Samuel Beckett.
Sì certo, è l’altro che lessi in modo incauto, in tenera età, cioè proprio da adolescente. Andavo alle superiori e mi ricordo anche lì l’impressione, i momenti di euforia perché mi sembrava qualcosa che mi riusciva di capire e sentire. Quando poi sono riuscito a leggerlo in originale mi è sembrato di recepirlo ancora meglio perché non è un autore facile da tradurre, e soprattutto nella traduzione si perde molto dell’umorismo terribile, crudelissimo che ha invece nell’originale. Questo iato mi sembra una delle cose che me lo rendeva comunque ostico da leggere in italiano. In originale è molto più leggero per quanto in senso assoluto non sia comunque leggero.
Tu hai sempre avuto la certezza del fatto che un giorno saresti diventato uno scrittore. Una scommessa importante, nel senso che a un certo punto tu gli affidi anche il tuo equilibrio psicologico. Adesso sappiamo che ce l’hai fatta ma non era così scontato. Hai davvero avuto sempre la certezza che ce l’avresti fatta?
Bè, con molti dubbi in mezzo naturalmente, dubbi che tra l’altro continuano, perché non è che nemmeno adesso sia in salvo. Forse è vero che la scrittura è stata anche una cura, lo è ancora adesso, però è anche la malattia. È veramente entrambe le cose assieme. Ci sono quei periodi in cui sembra più malattia che cura, però è un continuo, è un po’ un’altalena.
Leggendoti non mi sembra che potresti farne a meno.
Però anche questo non poter fare a meno di qualcosa vuol dire esserne dipendenti. Poi certo bisogna anche vedere da cosa si è dipendenti di solito (ride). Ma anche una medicina attraverso gli eccessi può diventare una dipendenza.
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