- Immaginate di guardare il nostro pianeta dall’alto e di contemplare tutto quello che vi succede. Apprestatevi cioè a compiere l’esperimento mentale denominato “volo filosofico”, un esercizio molto praticato dagli antichi.
- Siete voi a essere lassù, più o meno dove arrivò Lucrezio, o se preferite dove Cicerone collocò Scipione, o dove vi avrebbe voluto condurre Giordano Bruno, o dove Modugno volò e fa ancora volare molti di noi.
- E immaginandovi in questa condizione chiedetevi ora se, potendo scegliere, partecipereste oppure no al lungo viaggio denominato vita o anche esistenza che adesso state facendo qui sulla Terra.
Letterature. Festival internazionale di Roma, giunto alla sua ventesima edizione, si concluderà domenica 25 luglio presso lo Stadio Palatino. Il titolo di quest’anno è “Leggere il mondo”. Domani sera alle 21, insieme a Vito Mancuso (“Il volo filosofico”), interverranno Elisa Biagini (“La parola-ramo che ci tiene”), Roberto Alajmo (“Scìppati dal letto, Giovà”), Nicholas Jubber (“Un ponte di molti poemi epici”) e Gianrico Carofiglio (“Bambini sperduti”). Info su: culture.roma.it/festivaldelleletterature/
Immaginate di guardare il nostro pianeta dall’alto e di contemplare tutto quello che vi succede. Apprestatevi cioè a compiere l’esperimento mentale denominato “volo filosofico”, un esercizio molto praticato dagli antichi tra cui Lucrezio e Cicerone, ripreso nel medioevo da Dante, nel rinascimento da Giordano Bruno, e la cui più popolare rappresentazione è Volare, la canzone italiana probabilmente più famosa nel mondo.
La natura delle cose
Partiamo da Lucrezio. All’inizio del terzo libro del suo poema sulla natura, nella parte che contiene la lode incondizionata di Epicuro, egli si rivolge all’antico filosofo greco e scrive che grazie al suo pensiero ora giunge a vedere l’autentica natura delle cose, la rerum natura, una visione veritiera grazie alla quale «Fuggon via i terrori dell’animo, le mura del mondo si disserrano, vedo le cose svolgersi attraverso tutto il vuoto», così che subito dopo, appoggiata alla potenza del pensiero, la sua mente prende il volo: «La terra non mi impedisce che si discerna tutto quanto si svolge sotto i miei piedi, laggiù, attraverso il vuoto»; e il suo cuore inizia a palpitare di un sentimento nuovo: «Per queste cose mi prende allora un certo divino piacere e un brivido» (Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, libro III, versi 16-17 e 26-29).
Da Cicerone a Dante
Ora prendiamo Cicerone. Verso la fine della sua opera sullo stato, il De re publica (Sulla cosa pubblica), vi è il brano noto come Somnium Scipionis (Il sogno di Scipione) in cui egli immagina che Scipione l’Emiliano venga rapito in cielo durante il sonno e collocato in un punto dello spazio infinito dove dapprima incontra il suo avo, Scipione l’Africano (il vincitore di Annibale invasore, del cui elmo l’Italia nel risorgimento «si cinse la testa»), e poi scorge il nostro pianeta avvertendo con doloroso stupore la sua piccolezza e la dimensione ancora più minuscola, quasi deprimente, dei domini di Roma.
Ecco le parole che Cicerone fa pronunciare a Scipione: «Da qui io contemplavo l’universo, e anche gli altri corpi celesti mi apparivano di una meravigliosa luminosità. C’erano stelle che noi dalla Terra non abbiamo mai visto e la grandezza di tutte era tale che mai neppure abbiamo supposto […] la Terra mi apparve così piccola che io provai pena per il nostro impero, con il quale noi arriviamo a toccare, si può dire, un punto di essa» (Cicerone, De re publica, VI, 16).
Dante si muove sulla stessa linea. Giunto nella costellazione dei Gemelli, contempla il sistema planetario composto dai sette pianeti allora conosciuti e dalle relative sette sfere formate dalle loro orbite attorno alla Terra, e, nel vedere la piccolezza del globo terrestre e il suo «vil sembiante» sorride amaro, considerando che la filosofia migliore è quella che assegna al nostro pianeta la minore importanza, e che è veramente saggio chi rivolge le sue attenzioni non alla Terra ma al cielo. Ecco le sue parole: «Col viso ritornai per tutte quante / le sette spere, e vidi questo globo / tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante; / e quel consiglio per migliore approbo / che l’ha per meno; e chi ad altro pensa / chiamar si puote veramente probo». Nel medesimo canto Dante presenta a breve distanza la celebre descrizione della Terra come una piccola aiuola ricolma di ferocia: «L’aiuola che ci fa tanto feroci / volgendom’io con li etterni Gemelli, / tutta m’apparve da’ colli a le foci» Dante, Paradiso, canto XXII, versi 133-138 e versi 151-153).
Sentimento positivo
Giordano Bruno invece manifesta un sentimento diverso della natura, molto più positivo, gioioso, a tratti entusiasta, e forse per questo, dopo aver viaggiato in prima persona tra gli spazi infiniti, intende far viaggiare con lui anche i lettori. Egli aveva abbracciato la teoria copernicana che aveva abbattuto l’ingenuo geocentrismo biblico e tolemaico, ma poi la radicalizzò ulteriormente superando anche l’eliocentrismo e annunciando «l’infinito universo e mondi innumerabili» (Opere italiane, II, p. 10), per giungere, in una delle sue ultime opere, a rivolgere al lettore l’invito a salire nel cielo e ottenere una «vera contemplazione del mondo». Ecco le sue parole rivolte a ognuno di noi: «Orsù, dunque, sali, ti porterò sulla Luna: disponi i sensi come io dispongo le ali della ragione; orsù, va’ avanti tranquillo, segui una guida sicura […] l’immagine del vero e l’inclito ordine della natura sono per te, incerto, guida e ti ricondurranno in salvo» (Giordano Bruno, De immenso, 1591).
Il testo di Volare prosegue questa linea ottimista esprimendo il medesimo sentimento positivo, perché anche qui il volo sognante nello spazio infinito, ben lungi dal suscitare timore o sgomento, è fonte di felicità, anzi di una speciale dolcezza: «Penso che un sogno così non ritorni mai più / Mi dipingevo le mani e la faccia di blu / Poi d’improvviso venivo dal vento rapito / E incominciavo a volare nel cielo infinito / Volare oh, oh / Cantare oh, oh / Nel blu dipinto di blu / Felice di stare lassù / E volavo, volavo felice più in alto del sole / Ed ancora più su / Mentre il mondo pian piano spariva lontano laggiù / Una musica dolce suonava soltanto per me / Volare oh, oh / Cantare oh, oh / Nel blu dipinto di blu / Felice di stare lassù».
Immaginate se
Ora siete voi a essere lassù, più o meno dove arrivò Lucrezio, o se preferite dove Cicerone collocò Scipione, o dove vi avrebbe voluto condurre Giordano Bruno, o dove Modugno volò e fa ancora volare molti di noi. Però non ci siete arrivati, come avveniva con la fantasia agli antichi e come avviene realmente ai nostri giorni agli astronauti; no, voi lassù ci siete sempre stati, lassù è casa vostra. Non siete terrestri, siete celesti, stellari, iperurani. E immaginandovi in questa condizione chiedetevi ora se, potendo scegliere, partecipereste oppure no al lungo viaggio denominato vita o anche esistenza che adesso state facendo qui sulla Terra.
Ipotizzate anche di poter scegliere il periodo: età della pietra, età del ferro, primo secolo, Ventunesimo secolo, avanti Cristo, dopo Cristo, prima dell’Egira, dopo l’Egira, prima della fondazione di Roma, ab Urbe condita, insomma l’epoca che preferite, calcolata al modo che preferite, tanto uno vale l’altro quanto a possibilità di sperimentare il sapore della vita. Scegliete anche il luogo, se il medesimo che ora vi ospita oppure uno diverso, ma per favore ponetevi la domanda se potendo scegliere decidereste di partecipare oppure no alla condizione umana.
Da lassù vedete lo spettacolo della vita e dei viventi che si svolge qui sulla terra. Siete al cospetto di questa infinita passione, di cui nessuno può affermare con sicurezza quale sia il senso e se ce ne sia uno, se sia sensata o insensata, veritiera o ingannatrice. Di certo sappiamo che è bellissima ma anche dolorosissima, che è cioè il dispiegamento di una positività che scaturisce attimo dopo attimo da un processo spaventoso e incontrollabile definito da Hegel nella Fenomenologia dello spirito «immane travaglio del negativo». E ora vi viene offerta la possibilità di scegliere se sperimentare su di voi questa passione oppure rimanere tranquilli lassù. E voi, che fate?
Fin dall’antichità sappiamo che il nostro pianeta e la stella chiamata Sole che rende possibile la vita su di esso fanno parte di un insieme di stelle molto più grande che per il suo biancore nel cielo notturno venne denominato dagli antichi prendendo spunto dal latte, visto che galassia, com’è noto, viene da gala, in greco “latte”, da cui “Via Lattea” (e io devo dire che trovo bellissima questa origine così terrestre dei nomi dei sistemi celesti).
Miliardi di galassie
Da qualche secolo sappiamo che è il nostro pianeta a girare attorno al Sole e non viceversa, come ritenuto dalla Bibbia e dal sistema tolemaico; lo stabilì Copernico con il De revolutionibus orbium coelestium (letteralmente Sui rivolgimenti dei mondi celesti, di solito tradotto Le rivoluzioni delle sfere celesti), opera che l’autore prudentemente pubblicò nel 1543 a Norimberga, in punto di morte e in terra protestante per evitare noie con l’Inquisizione cattolica, e divenuta di sapere comune solo due secoli dopo e non senza alcune vittime, tra cui il rogo di Giordano Bruno (Roma, Campo de Fiori, 17 febbraio 1600) e l’abiura di Galileo (Roma, Santa Maria Sopra Minerva, 22 giugno 1633), tragici eventi che diedero inizio alla decadenza culturale e civile del nostro paese in cui esso, ancora, si dibatte.
Da pochi decenni sappiamo che la nostra galassia è solo una tra moltissime altre, il cui numero complessivo è stimato non in centinaia, non in migliaia, e neppure in milioni, bensì in miliardi di unità: gli astrofisici dicono che vi sono all’incirca cento miliardi di galassie, ognuna delle quali ospitante al suo interno svariati miliardi di stelle. Si tratta di dimensioni che per la nostra mente risultano del tutto impensabili, di fronte alle quali lo smarrimento di Scipione raccontato da Cicerone non può che evaporare, la fede di Dante in un cosmo razionale mosso dall’amore subisce pesanti colpi, e forse anche la spensierata felicità cantata da Modugno inizia a vacillare.
Ma torniamo al punto: voi siete cittadini di lassù, di un posto tranquillo in quella distesa di galassie, e qualcuno vi propone di scendere quaggiù, su questo minuscolo pianeta paragonato a un piccolo appezzamento di terra che ci rende cattivi e violenti («l’aiuola che ci fa tanto feroci»): che fate, accettate? Vi iscrivete al viaggio che un’ipotetica agenzia turistica intergalattica denominerebbe “Pianeta Terra & condizione umana”? Un viaggio che dura una vita intera? E nel quale il vitto e l’alloggio, salvo per alcuni pochi privilegiati, non sono compresi, ma ve li dovete procurare voi stessi sul campo? Oppure preferireste rimanere lassù, tranquilli, al riparo dal sangue della storia, senza preoccupazioni di vitto e di alloggio, di selezione naturale e di selezione economica, di malattie varie e di una morte sicura?
Scenari paradisiaci
Peraltro, volendo proprio viaggiare, vi sarebbero destinazioni più sicure e più rilassanti rispetto alla Terra. Per esempio si potrebbe scegliere di atterrare direttamente nel paradiso cattolico, il cui stato di vita è caratterizzato da una condizione denominata visio Dei beatifica (“visione beatifica di Dio”) e così passare tutto il tempo nella contemplazione dell’Eterno, lodandolo e cantandone le glorie, nei secoli dei secoli, e ritrovarsi beato accanto ad altri beati, in splendida compagnia di ottime persone, per quanto tutti fissi al proprio posto e a debita distanza gli uni dagli altri all’interno di una scenografia che si preannuncia minacciosamente simile a un’infinita messa cantata.
Qualcun altro invece potrebbe preferire il paradiso islamico dove la prospettiva si preannuncia moto più piacevolmente movimentata, perlomeno per gli esseri umani di sesso maschile, ognuno dei quali avrà a disposizione bellissime fanciulle sempre pronte a soddisfare i suoi desideri (naturalmente una lettrice a questo punto si potrebbe chiedere cosa farebbe lei nel Paradiso islamico, e di sicuro i dottori musulmani sono pronti a offrire le migliori e più rassicuranti spiegazioni).
Altre religioni parlano di scenari paradisiaci ancora diversi, io però penso che il più saggio sia stato il Buddha, il quale capiva che alla mente umana non è dato concepire il cosiddetto aldilà e quindi non ne parlava se non per negazione mediante il concetto di nirvana, letteralmente “non soffio” (e quindi “estinzione del soffio vitale”). Egli metteva in atto ciò che secoli dopo avrebbe icasticamente affermato Wittgenstein: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» (Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 7 [1921]).
Pensare la vita
Ma sto divagando e torno alla questione chiedendovi per l’ultima volta se potendo guardare la Terra dall’alto e vedendo tutto quello che vi succede decidereste di incarnarvi assumendo la condizione umana oppure no.
«Il pensiero, quando è autentico, è pensiero della vita», ho imparato da un grande teologo del Novecento, lo svizzero Karl Barth, il quale aggiungeva che solo in questo caso, cioè solo nella misura in cui proviene della vita, il pensiero si può proporre come «pensiero di Dio», come teo-logia (Karl Barth, L’Epistola ai romani). Pensare la vita e pensare Dio sono quindi la stessa cosa, e se io da tempo ho preso le distanze dal cristianesimo ufficiale è stato per averlo trovato incapace di cogliere con autenticità la realtà della vita.
Ma cosa vuol dire pensare la vita? Vuol dire sottoporsi alla pressione dell’esistenza e farsi imprimere. E in un secondo tempo vuol dire esprimere mediante le parole (o mediante la musica, la pittura, la cinepresa o altro) il risultato della sua pressione su di noi e dentro di noi. Se però di fronte all’esistenza non c’è una disposizione innocente, priva di pre-comprensioni ideologiche e di presupposti dogmatici; se non ci si abbandona quasi al limite dell’ingenuità alla rivelazione della vita senza nulla da difendere; se non ci si lascia imprimere totalmente dalla vita allo stesso modo di un foglio bianco quando viene stampato, o si potrebbe dire torchiato, visto che il torchio era lo strumento originario delle stamperie; se non c’è anzitutto questo momento incontaminato di passione nel senso primo di ricezione passiva, allora è inevitabile che tutte le successive espressioni risulteranno necessariamente scontate, per non dire artificiose e ultimamente false. Non saranno resoconti di esperienze, ma dichiarazioni ideologiche; non testimonianze, ma confessioni dottrinali; non voci di chi dice parole sue, ma espressioni di chi parla a nome di altri facendosi per l’appunto portavoce, portatori della voce del padrone (per riprendere il titolo dell’indimenticabile album di Franco Battiato).
Se invece ci si espone integralmente alla pressione dell’esistenza, le successive espressioni del pensiero proverranno da esperienze in prima persona e quindi risulteranno autentiche. Potranno essere anche imperfette, persino oggettivamente sbagliate, ma saranno comunque sempre veritiere, genuine, ispirate, quindi al servizio della vita e generatrici di salute psichica. Chi parla traendo da sé quanto dice, senza preoccuparsi di risultare conforme alla struttura sociale cui appartiene qualunque essa sia (partito, movimento, azienda, chiesa, gruppo di amici…), testimonia il vissuto che gli proviene dal contatto diretto con la vita e in questo modo il suo pensiero acquista una “sorgività” tutta sua: è la voce della sua emozione vitale.
E la mia emozione vitale mi porta a dire che se fossi lassù e qualcuno mi chiedesse se volessi mai scendere quaggiù per assumere la condizione umana, io, senza troppo esitare, gli risponderei di sì.
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