Qualche settimana fa sono stato licenziato. «Non possiamo rinnovarti il contratto», come usa dire oggi che alla monotonia da lungometraggio novecentesco del posto fisso si è sostituita l’elettrizzante incertezza di contratti a tempo brevi come puntate di serie tv che, fino a pochi giorni dalla scadenza, non si sa mai se finiranno bene o male.

Nel mio caso: male. Due giorni prima di un rinnovo che davo per scontato. Questo per dire di che umore ero mentre aspettavo l’ascensore per andarmene da disoccupato: incredulo, arrabbiato, spaventato, frustrato, quasi in lacrime.

Entro nel cubicolo di alluminio e da un altoparlante gracchiante nascosto chissà dove, Bob Marley: «Don’t worry… about a thing… ‘Cause every little thing… gonna be all right…» con quella vocina, l’organetto, quell’ottimismo immotivato alla “andrà tutto bene” dei bei tempi del Covid (196mila vittime in Italia, 25 milioni nel mondo) e con una qualità audio da walkie talkie Fisher Price primi anni Ottanta.

Conosco persone che non possono ascoltare una nota di reggae senza avvertire l’impulso a invadere la Giamaica, ma il saggio Igor ci ha insegnato che nella vita può sempre andare peggio, potrebbe piovere, e a me, tutto sommato, è andata bene: nel percorso inverso, per dire, sull’ascensore c’era stato Eros Ramazzotti ad avvertirmi che «la nostra vita, che in cerca di un sorriso, di amore condiviso, in un mondo che fa schifo».

Ovunque

La musica è ovunque, e spesso non c’entra niente con il luogo, il contesto, il tempo, il momento. Quella di sottofondo gli americani la chiamano “elevator music”: l’hanno inventata negli anni Venti (dopo i grattacieli) come antidoto sperimentale all’epidemia di attacchi di panico di chi entrava nei claustrofobici ascensori. Funzionò. Melodie leggerissime, rassicuranti, calmavano le persone.

Risalgono a quegli anni i primi studi sugli effetti della musica su umore, emozioni e comportamenti umani. Dopo gli ascensori si diffuse in hotel, ristoranti, sale d’attesa e, ovviamente, grandi magazzini non appena si dimostrò che quella giusta predisponeva agli acquisti.

Una delle prime aziende a farne un business fu la Muzak. Fondata nel 1934, forniva ai clienti un servizio di trasmissione senza fili di “musica da ascensore” e oggi negli Stati Unitimuzak” è parola di uso comune per indicare la “musica leggera di facile ascolto, che si usa come sottofondo in locali pubblici” e, per estensione, “musica leggera di nessun valore”.

Ambient music

Il primo a interrogarsi sul “nessun valore” della muzak fu Brian Eno, capellone glam truccatissimo con i Roxy Music, poi pelato compositore, super produttore, pioniere dell’elettronica, teorico, sperimentatore, rivoluzionario. Insomma, un genio del suono. Eno è anche il padre della “ambient music”, sua definizione del 1975, quando iniziava a teorizzare un uso della musica come fosse un arredo, un colore, un profumo.

Nel 1978 pubblicò un album di suoni rarefatti e un manifesto. L’album (splendido) era Music for airports/Ambient 1, il manifesto erano le note di copertina che lo accompagnavano: «L’ambience» è «un’atmosfera o un’influenza circostante: una tinta», e poi: «La musica ambient deve essere in grado di adattarsi e soddisfare molti livelli di attenzione d'ascolto senza imporne uno in particolare; deve essere tanto ignorabile quanto interessante», con l’obiettivo di «calmare e offrire uno spazio per pensare».

Pandemia rumorosa

Quasi cinquant’ anni dopo, la musica ci è sfuggita di mano come un virus da un laboratorio dilagando in una pandemia rumorosa. Ci segue ovunque come uno stalker. Solo che se a seguirmi fosse Eros Ramazzotti potrei denunciarlo ai carabinieri. Se a farlo è la sua voce, la sua cosa più bella non c’è, non ho tutela legale. Non per caso Alberto Arbasino si era inventato la parola “tormentoni” (la musica è usata anche come strumento di tortura: a Guantanamo si è infierito sui detenuti a colpi di Britney Spears, Justin Bieber, Nine Inch Nails, Macarena).

Lo sbracamento musicale odierno è solo una parte dell’inquinamento acustico. Che è un inquinamento poco percepito, quasi di serie C, roba da vecchi naftalinici che battono con la scopa sul soffitto mica da giovanissime attiviste svedesi: non c’è partita in confronto a superstar come l’inquinamento dell’aria o dell’acqua.

Perfino con l’inquinamento luminoso: se un palazzo barocco viene illuminato male, apriti cielo, dal drammatico squarcio nelle nubi scenderà uno sgarbide armato di spada fiammeggiante. Se al piano terra del medesimo palazzo un bar irradia musica a tutto volume, la questione viene derubricata in “rapporti tra vicinato e movida”.

Eppure il rumore non è solo fastidio: c’entra la salute. Di rumore si muore. Secondo il sito dell’Ente Europeo per l’Ambiente, almeno diciotto milioni di persone sono notevolmente infastidite dal rumore, 5 milioni soffrono di disturbi del sonno elevati e si stima che l’esposizione a lungo termine al rumore causi ogni anno in Europa 41mila nuovi casi di malattie cardiache e 11mila morti premature. E sono numeri sottostimati.

Sono scomparsi i silenzi, siamo sommersi da un rumore costante di cui spesso non ci rendiamo conto e che fa quasi paura come quel mare scuro, che si muove anche di notte e non sta fermo mai.

Il suono è potere 

Chi ha provato a farsi sentire sopra il frastuono è l’austriaco Peter Androsch, compositore, filosofo, esperto di suoni e silenzi, oggi a capo del Co.Lab di Ecologia Acustica dell’università di Linz, la sua città. Nel 2009, da responsabile del programma musicale di Linz Capitale della Cultura, pubblicò su tre quotidiani in Francia, Germania e Austria, il suo Manifesto Acustico.

Risposta (incazzata) al Manifesto Futurista di cent’anni prima, alla hybris di Marinetti, che glorificava la meccanizzazione e con essa la piaga del rumore. Androsch parla di «radiazioni sonore» che «bombardano le persone rendendole apatiche e stupide» e dello spazio acustico come un «selvaggio West dell’udito» dove i potenti spadroneggiano.

Chiama «horror spatii sono vacui» il terrore del capitalismo per gli spazi silenziosi e nota che il silenzio è un lusso: «Chi vive nel rumore vive nella povertà» e viceversa. Denuncia che scuole rumorose aumentano l’aggressività dei bambini, chiede un’architettura che pensi al suono. Accusa l’industria automobilistica. Vuole il diritto al silenzio e a morire in ospedali silenziosi.

«Il suono è politica» mi dice. È potere: «L’egemonia politica si manifesta anche nell’egemonia acustica: in passato, le campane definivano lo spazio di influenza della chiesa». E oggi? «Il rumore del traffico» è segno dello strapotere dell’industria automobilistica, «un’idra dalle mille teste» davanti a cui «lo stato trema».

Noi umani, continua, «ascoltiamo 24 ore al giorno, ogni giorno, tutta la vita: non possiamo impedirlo, perché l’udito ci avvisa del pericolo». Ogni rumore sgradevole è processato dal cervello che mette in allarme il sistema endocrino e quello nervoso. Alla lunga: malattie cardiache, infarti, ictus.

Poco conosciuto

Ma allora perché al suono non si dà la giusta importanza? «Perché non lo conosciamo», risponde. «Chi studia architettura non sa che un palazzo è uno strumento musicale: una facciata di vetro riflette tutto il suono che c’è in strada e, quando il suono torna indietro, rimbalzato dalla parete opposta, raddoppia di volume. Gli architetti sono i sound designer della città».

E dovrebbero iniziare a disegnare per le orecchie, sostiene Julian Treasure, divulgatore su temi legati all’acustica, mentre l’architetto inglese Richard Mazuch parla di una “architettura invisibile” che progetti strutture piacevoli anche per le orecchie.

Quando il Manifesto Acustico fu pubblicato, fece il botto. L’amministrazione cittadina firmò una “carta di Linz” impegnandosi a fare cose bellissime per ridurre il rumore. Che ne è stato? Androsch sorride, scuote la testa.

Dopo il botto è calato il silenzio. Ma anche l’Ur-botto, il Big Bang, non fece rumore, perché non c’era aria attraverso cui il suono potesse propagarsi. Non l’avevano ancora inventata. Eppure, eccoci qui.

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