- In inglese «scendi dal piedistallo» si dice «scendi dal cavallo». La metafora ha a che fare con arroganza e senso di superiorità ma l’altezza del cavaliere, nel Rinascimento, aveva un significato più interessante, ancora vivo nelle armature esposte nei musei.
- Le famose immagini propagandistiche di Putin a cavallo senza maglietta non sono state imitate solo da altri autocrati, ma anche da divi del pop e del cinema in cerca di un carisma virile che li liberasse dall’immagine di ragazzini.
- Le cavalcature, come il mio motorino quando avevo quattordici anni, possono senz’altro garantire ai maschi dei vantaggi materiali e simbolici. Ma sarebbe bello resuscitare invece l’aspetto di empatia inter-specie del rapporto, come quella tra Alessandro Magno e il suo Bucefalo. Questo contributo è parte del nuovo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.
In inglese, «scendi dal piedistallo» si dice «scendi dal cavallo». Più precisamente la locuzione è high horse: un “alto cavallo” metafora dell’arroganza, della condiscendenza intellettuale, di una percepita superiorità morale. L’altezza al garrese di un destriero è in fondo il golfo di potere e di importanza che ha a lungo separato, in una simbolica direzione longitudinale, chi conta da chi è spendibile, gli ufficiali dai soldati semplici. Ed è significativo che l’Italia, storicamente terra di fanti appiedati, si sia raccontata a sé stessa mescolando le tradizioni romanzesche di Bretagna e Normandia in un universo epico centrato sulla cavalleria – una roba estera, arturiana e carolingia, che abbiamo fatto nostrana librandoci all’altezza di una cavalcatura. L’uomo ideale del Rinascimento, del Barocco, si immaginava cavaliere. E i cavalieri non vanno a piedi, non stanno bassi.
Cavalieri rinascimentali
L’italianista Amedeo Quondam, che di Rinascimento e Barocco se ne intende, vent’anni fa ha scritto un intero libro sull’armatura che Erik XIV di Svezia fece confezionare per sé e per il suo cavallo da un sommo orefice di Anversa, includendo il possente palafreno, come fosse un trono mobile, nella sua rappresentazione armata di sé. Pochi anni dopo l’uscita del libro di Quondam, intitolato Cavallo e cavaliere, Erik comparve come paffuto cicisbeo nel famoso film su Elisabetta I con Cate Blanchett: un bamboccio tonto cui la regina, per nulla lusingata dalla sua proposta di matrimonio, intima sostanzialmente di scendere dal piedistallo (o dal cavallo), ritrovandosi poi lei in sella, con tanto di corazza (per sé, non per il niveo corsiero) e chiome al vento, in una maestosa distorsione della verosimiglianza storica.
Quella caricatura cinematografica si infrange immediatamente se incontra il metallo dell’armatura cinquecentesca, quella vera, del re svedese, che impressiona soprattutto per la forma del cavallo che proteggeva, e di cui ora testimonia l’antica fierezza con la permanenza di un fossile cesellato, pieno di medaglioni che raffigurano le fatiche di Ercole. Quella scorza d’uomo sulla scorza di un cavallo è un’armatura di stato, come quelle dei prìncipi e dei duchi che si possono incontrare lungo i corridoi della collezione Stibbert di Firenze, incantevole set di un episodio della terza stagione de L’amica geniale. O come quelle, anch’esse spesso estese dal cavaliere inesistente al cavallo fantasma in una sorta di metallico centaurismo spettrale, che in effetti Elisabetta I aveva nella sua famigerata armeria reale, da cui diversi gentiluomini acquistarono pezzi di prestigio rimpinguando le sue casse. Costruendosi un imperituro esoscheletro a cavallo destinato a sopravvivergli senza mai scendere di sella, i notabili d’Europa si raccontavano ai contemporanei e ai posteri come monumenti equestri.
Genealogia equestre di Putin
Anche Vladimir Putin ha raccontato sé stesso alla propria nazione e al mondo ponendosi in alto, sulla groppa di un cavallo che cavalcava a torso nudo calzando scarponi e sfoggiando pantaloni militari. Appariva, negli scatti di propaganda, cavaliere ma anche cowboy, condottiero e avventuriero nel verde spento di una steppa inospitale. Quel servizio fotografico ha fatto il giro del mondo, e a guardarlo oggi non si può che pensare a Mussolini in sella, con la sciabola e il cappello col pennacchio nelle foto d’epoca e nei quadri dei futuristi convertiti al fascismo. Oppure a Kim Jong Un, il leader supremo della Corea del Nord, che nel 2019 ha diffuso alcune sue immagini equestri allucinanti: cappottone di cammello, stivali da fantino, la faccia assorta e contrita in una smorfia disorientata e un destriero bianco, bellissimo, lanciato sulla neve del monte Paektu.
Ma in realtà la mascolinità in sella dell’autocrate russo ha fatto scuola ben al di là del club internazionale degli “uomini forti” che ci affliggono con la minaccia di conflagrazioni nucleari, militarizzando il nostro immaginario e le timeline delle app d’informazione che compulsiamo. Zac Efron, quintessenza del bellone da film lanciato da High School Musical, a 26 anni esibiva i suoi muscoli rigonfi in un servizio fotografico a cavallo lungo le rive di un lago in Sardegna. Certo, aveva già manifestato le sue qualità di cavallerizzo nel malnoto (e, mi duole dirlo, bruttissimo) film The Derby Stallion, ma è la posa senza maglietta con le redini in mano a tradire la genealogia visiva condivisa con l’auto-rappresentazione di Putin, emblema di un’erotizzazione del potere, del carisma (che poi forse è esso stesso una forma di potere, o almeno di privilegio) molto specifica del maschile.
Anche Justin Bieber, idolo pop che inizialmente giocava la sua immagine sul paradigma pulito dell’adorabilità, ha partecipato a questo atlante iconografico del macho a cavallo, facendosi ritrarre seminudo (ma col cappello) su un candido purosangue. Come Efron, inforca occhiali da sole, come Putin una catena d’oro sul petto. Come i prìncipi e i dittatori del passato (e di oggi) mobilizza l’animale simbolo dell’addomesticamento volitivo al fine di sollevare la propria virilità topless al di sopra di quella di chi va a piedi, in maniche di camicia.
In groppa all’insicurezza
Con saggia lungimiranza, dopo aver adoperato un motorino azzurro per qualche anno lavorando in città, mio padre decise di conservarlo, invece di venderlo, in attesa dei miei quattordici anni. Come sarebbe stata più difficile la mia vita se non avessi fatto praticamente tutto il liceo in sella a quel draghetto dalla marmitta perennemente scassata, che immediatamente mi conferì, agli occhi dei miei pari, una personalità.
Invitato a essere di poche parole, non effusivo, distratto, un maschio può giovare moltissimo dell’intransitiva carica figurale di una cavalcatura, capace di trasformarlo teatralmente in ciò che non è mai stato – o che non è ancora. Si pensi al Gatsby di Fitzgerald, alla sua automobile scintillante che più di ogni altro oggetto nel romanzo lo autorizza a spacciarsi per il miliardario di mondo che in realtà non è. Si pensi a Gandalf, che nel Signore degli anelli si procura il più divino dei cavalli della Terra di Mezzo, Ombromanto, non appena torna dalla morte assurgendo al ruolo di stregone bianco, così che vedendolo arrivare su una simile bestia chiunque sappia da subito con chi ha a che fare. Si pensi a Batman, definito così precisamente dall’estetica della batmobile: fumettistica e massiccia nei film di Tim Burton, più ridicola e impossibile in quelli di Joel Schumacher, realistica come un carro armato appena tinto di nero nella trilogia di Christopher Nolan, ganza da morire nell’ultimo film con Robert Pattinson, in cui la scena dell’inseguimento sembra presa dai Fast and Furious di una volta ripuliti della loro allegra ironia spaccona.
Certo, una cavalcatura porta con sé dei vantaggi materiali: autonomia, convenienza, status. Ma la sua funzione tra le gambe del paradigma della maschilità è forse soprattutto quella di impressionare, di moltiplicare l’uomo fondendolo col suo mezzo di trasporto in un cyborg elevato, dominante, di eloquente impatto plastico. Forse di sopperire a qualcosa che manca, a terrorizzanti difetti d’identità e fiducia in sé. Non è un caso che la Angelica di Ariosto preferisca il bellissimo fante Medoro al cavaliere Orlando, facendogli crollare ogni convinzione al punto che, come dice il titolo del poema, diventa furioso, scende dal cavallo.
L’affetto di Alessandro
Dei cavalli, però, mi incanta soprattutto la remota storia umana. Sono almeno cinque millenni che li domiamo, adoperando sin dalla preistoria l’ingegneria genetica dell’allevamento, della selezione, degli incroci e dell’addestramento per farne mansuete e perfette estensioni di chi li conduce, capaci di interpretare pressioni, segnali uditivi e tattili, come se i loro muscoli formidabili rispondessero alla mente della creatura che trasportano.
C’è un amore speciale, nelle storie di cavalleria, tra gli eroi e i loro leggendari compagni animali, una forma di cura e di manutenzione altrimenti rara nel profilo classico del maschio da battaglia. Alessandro il grande non doma il turbolento e costosissimo Bucefalo con la forza e con l’autorità, ma con l’empatia: lo capisce, si rende conto che teme la sua stessa ombra, e lo conduce dunque contro il sole. Aragorn, il re di Tolkien, ha una storia simile col suo Brego, frisone di Rohan. E un’analoga tenerezza, avveduta e solerte, congiunge il più spaventoso centauro da gang americana alla sua curatissima motocicletta – e Han Solo al Millennium Falcon, e Breus, nell’omonima poesia di Giovanni Pascoli che un tempo si imparava a memoria alle elementari, al suo vecchio ronzino da strigliare.
È l’affetto che ricordo di aver provato per il mio glorioso motorino, un rispetto che può far scendere i maschi dal cavallo della fragilità egocentrica senza negar loro la cavalleria: che può affratellarli ai soggetti animali e inorganici che il mondo li invita a soggiogare per impressionare il prossimo.
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