- In Dissidenti, Gianni Vernetti racconta di prima mano 25 storie, poco note in Italia, di persone che in Cina, Russia, Iran, Turchia e altri paesi lottano contro le nuove autocrazie.
- Il libro è un antidoto efficace contro un luogo comune piuttosto diffuso, anche fra i progressisti, secondo cui i diritti umani sarebbero una aspirazione esclusivamente occidentale.
- Contiene inoltre indicazioni concrete su quello che possiamo fare per sostenere la democrazia nel mondo. Ma la «globalizzazione dei diritti» deve accompagnarsi a una loro rivendicazione più coerente anche nel campo occidentale.
A volte la libertà si spegne all’improvviso: quando succede, come in Cile nel 1973, fa clamore, ne restiamo tutti colpiti; ma non è questa la norma. Più spesso i regimi autoritari si vanno formando gradualmente. Le loro maglie si fanno a poco a poco più stringenti.
Come è accaduto in Russia, con Putin. Come avviene in Cina. Come sta succedendo in Turchia. Così come, in misura minore, si è verificato all’interno della stessa Unione europea, in Polonia o in Ungheria. E a ben vedere questo è successo anche in Italia, con il fascismo.
Autocrazie in crescita
Questa constatazione è tanto più vera, oggi, perché le autocrazie del XXI secolo dispongono di strumenti micidiali per reprimere il dissenso, grazie alle nuove tecnologie. Vero: le voci dei dissidenti arrivano con più facilità al mondo grazie alla rete, possono levarsi con più spontaneità. Ma i regimi autoritari stanno imparando a reprimerle sul nascere; impongono la censura dentro i loro confini, spezzando la globalità della rete; hanno i mezzi per esercitare un controllo senza precedenti sui loro cittadini, li stanno adoperando.
Conoscere le storie dei dissidenti di questi regimi, farle arrivare nel mondo libero, è quindi vitale, innanzitutto perché altrimenti queste voci rischiano di spegnersi (e alcune si stanno già spegnendo); ma lo è anche perché queste persone hanno bisogno di non sentirsi sole, hanno bisogno della società civile occidentale come delle loro stesse comunità di connazionali all’estero; e infine perché le loro storie ci aiutano a comprendere la natura di quei regimi.
Ma noi, in occidente, conosciamo queste voci? Mentre sappiamo tutto della guerra sul campo in Ucraina, che cosa sappiamo ad esempio della dissidenza in Russia, contro Putin (che ne è stato persone che tra febbraio e marzo manifestavano contro la guerra)? O di quella cinese?
Le storie dei dissidenti
È uscito in questi mesi un libro di Gianni Vernetti, Dissidenti (Rizzoli, pp. 360), che oltre a essere frutto di un impressionante lavoro giornalistico, è prezioso.
Nella prima parte, Vernetti ragiona sulla crisi delle democrazie e l’ascesa delle autocrazie, sulla storia che ha ricominciato a girare in una direzione che non auspicavamo, ma presenta anche alcuni luoghi di resistenza nel mondo, isole di rifugiati da Taipei alla Lituania. Nella seconda parte, racconta degli incontri che ha avuto in questi anni con 25 voci dissidenti, persone che in tutti i continenti si battono per l’affermazione dei diritti umani, rischiando a volte la vita.
Sette di loro stanno lottando contro il regime cinese di Xi Jinping: sono Tenzin Gyatso, attuale Dalai Lama; Dolkun Isa, presidente del World Uyghur Congress; Nathan Law, leader degli studenti di Hong Kong; gli attivisti di piazza Tienanmen Wu’er Kaixi e Han Dongfang; Denise Ho, cantante di Hong Kong che combatte per i diritti Lgbt+ e vive in Canada; Badiucao, fumettista politico cinese che vive in Australia. Cinque sono russi: l’ex campione mondiale di scacchi Garry Kasparov; Leonid Volkov e Anastasia Vasilieva, rispettivamente collaboratore e medico di Navalny; Vladimir Kara-Murza, oppositore di Putin avvelenato due volte e ora in prigione per essersi espresso contro la guerra in Ucraina; Mikhail Khodorkovsky, imprenditore in esilio.
Ci sono poi Svetlana Tichanovskaja, che nel 2020 sfidò Lukashenko alle elezioni presidenziali in Bielorussia e perse a causa delle frodi e che ora è in esilio in Lituania; ci sono due donne iraniane, le scrittrici e attiviste Masih Alinejad e Azar Nafisi; la giornalista afghana e femminista islamica Shukria Barakzai; il giornalista turco Can Dündar e l’attuale sindaco di Istanbul Ekrem Imamoğlu. E poi il leader del partito democratico del Kurdistan iracheno Mesûd Barzanî e il leader curdo siriano Mazloum Abdi; e poi Nadia Murad, attivista yazida irachena, schiavizzata dalle milizie dell’Isis, e Denis Mukwege, medico congolese, che nel 2018 hanno ricevuto il premio Nobel per la pace. Incontriamo l’ex presidente delle Maldive Mohamed Nasheed, figura di spicco nella lotta al cambiamento climatico, e l’arcivescovo della chiesa cattolica caldea in Iraq Bashar Warda, impegnato a difendere la libertà religiosa.
Ebbene: quanti di questi nomi sono noti a un lettore italiano bene informato? Probabilmente non più di quattro, o cinque. Già questo esemplifica il valore del libro. Al di là del fatto che non tutte le scelte sono ugualmente condivisibili: nell’elenco troviamo il catalano Puigdemont (la repressione della Spagna è stata eccessiva, ma davvero quel paese può essere accostato agli altri regimi?), mentre non figura nessun dissidente delle monarchie arabe del golfo o dell’Ungheria di Orbán. E perché non parlare di una storia così grave, ma forse a lieto fine, come quella di Lula in Brasile?
Che fare?
Ma Dissidenti è importante non solo perché dà valore a storie che rischiano di venire ignorate. Lo è anche per altre due ragioni. Primo, è un antidoto contro un luogo comune diffuso, anche fra progressisti, secondo cui i diritti umani sarebbero un’aspirazione esclusivamente occidentale. Vero, i diritti umani nascono in occidente. Ma hanno valore e fascinazione universali.
Hong Kong, Taiwan, sono storicamente di cultura cinese: ma i loro cittadini si battono per la democrazia. Lo stesso vale per Cina (si pensi a Tienanmen) e Russia: l’Ucraina è invisa al regime di Putin anche perché con la sua esistenza dimostra, pur con tutti i suoi difetti, che una Russia libera è possibile. I diritti umani sono un’aspirazione anche delle popolazioni del medio oriente e dei paesi islamici.
Del resto, che la democrazia fosse un valore relativo lo si ripeteva anche nell’Italia fascista («le libertà politiche vanno bene per gli inglesi»): siamo i primi a dover sapere che la relativizzazione dei diritti è una menzogna addotta per giustificare l’oppressione.
Questa constatazione conduce all’ultimo tema del libro: la riflessione sul «che fare», per promuovere democrazia e diritti, riflessione che corre come un filo in tutto il lavoro ed è esplicitata nelle conclusioni. Rivelatrice una sentenza: «Per troppo tempo la comunità dei paesi liberi si è illusa che la globalizzazione delle economie sarebbe stata una condizione sufficiente per diffondere pacificamente democrazia, libertà e diritti». Oggi sappiamo che non basta. Nonostante la crescita economica la Cina non è diventata più democratica.
Per questo è necessario che i paesi liberi promuovano attivamente la democrazia e i diritti dell’uomo. Una «globalizzazione dei diritti» che è cosa ben diversa dall’esportare la democrazia con le armi. Ma si traduce in un decalogo preciso di azioni da intraprendere: sostenere la dissidenza nei regimi autocratici; supportare stampa libera, multipartitismo, sindacati, organizzazioni della società civile, fornendo finanziamenti ai giornali indipendenti e supporto tecnico per garantire l’accesso a internet e aggirare i firewall; vuol dire passare da sanzioni economiche generalizzate a sanzioni mirate contro i responsabili di violazioni dei diritti sul modello del Global Magnitsky Act approvato in Usa nel 2012 e poi del Regime globale di sanzioni dell’Ue del 202; significa limitare le esportazioni di tecnologie che potrebbero essere usate per violare i diritti dell’uomo.
A tutto questo però si deve accompagnare la capacità di offrire al mondo intero un modello geopolitico alternativo a quello russo-cinese. Vernetti individua i tasselli di questa proposta nel primo Summit per le democrazie, nel dicembre 2021, oltre che nelle iniziative di sviluppo alternative alla «Nuova Via della seta» cinese, promosse dall’India, dal Giappone, dall’Ue e dagli Stati Uniti.
Ma perché tale strategia abbia successo, è fondamentale che l’occidente sia coerente con i valori che cerca di affermare. Gli Usa, ad esempio, dopo aver firmato il trattato che istituisce la Corte penale internazionale nel 1998, a oggi non l’hanno ratificato, per non rischiare di trovarsi sul banco degli imputati per crimini in Afghanistan e in Iraq.
Il trattamento di favore concesso al regime di Erdogan in quanto membro fondamentale della Nato, anche sacrificando i curdi; o l’intesa con l’Arabia Saudita, fra i regimi più feroci al mondo e primo responsabile dell’attuale sanguinosa guerra civile in Yemen, ma considerato alleato indispensabile nella partita globale contro Russia, Cina e Iran: sono solo alcune delle scelte recenti che rischiano di togliere all’occidente argomenti decisivi, se la battaglia contro le autocrazie dovrà essere vinta sul piano dei valori e quindi dell’attrattività del nostro modello, piuttosto che con le armi.
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