R. A. aveva sei anni la prima volta che ha pensato di voler essere altro. Anche dopo 59 dolorosissimi interventi non ha il naso che vorrebbe e si descrive come un’anima libera, sembra un adolescente
La prima volta che R.A. pensa di voler essere altro ha sei anni. Non vede una farfalla volare, né una ballerina alla televisione. Semplicemente coglie il proprio riflesso nella vetrata del salotto di casa.
R.A. pensa di avere il naso troppo grande.
Lo chiede a Fernanda, che dice no, è normale.
Fernanda è la sorella.
L’unica persona al mondo – a quanto dice R.A. – ad averlo accettato per ciò che voleva diventare. L’unica che non ha mai giudicato il suo desiderio di essere Ken. È del resto con Fernanda che lui ha condiviso l’infanzia. Era nel cesto di giocattoli in comune, tra decine di Barbie, che giaceva Ken: bello, proporzionato. Molti anni dopo, in un programma televisivo, uno psicanalista avanzerà l’ipotesi che il desiderio di essere Ken, proprio Ken e non altro, rappresenti la volontà di R.A. di tornare all’infanzia, alla cesta di giocattoli.
Assolutamente no – nega lui. – Io sono felice di avere la mia età. Certo, se avessi tre anni in meno.
I 59 interventi
R.A. si sottopone a 59 interventi di chirurgia plastica per somigliare a Ken di Barbie, conquistare il primato – e ce la fa, entra nel Guinness. Tra i tanti interventi: otto rinoplastiche, cinque liposuzioni, tre addominoplastiche, zigomi, riduzione della mascella.
Gli piace che le persone lo fermino per strada. Poco conta se sappiano chi è o no, lo fermano per l’aspetto. R.A. non si sente né un fenomeno da baraccone né un mostro, bensì un individuo coraggioso. Chi lo fotografa vede il coraggio, perché tutti hanno un ideale di bellezza, ma pochi il coraggio di realizzarlo. Bisogna essere intrepidi per diventare come lui, capaci di sopportare il dolore. Non dico eroi – afferma.
Io che lo sto intervistando annuisco. L’operazione più dolorosa? – chiedo.
Costole. Due da un lato, due dall’altro, rimozione. Ma già solo fare l’operazione è stata un’impresa. Giusto una persona testarda come lui poteva riuscirci, del resto R.A. – parla di sé in terza persona – è così: quando vuole una cosa, se la prende. Ben tre chirurghi a cui si rivolge si rifiutano di operarlo. Lo avvertono che è pericoloso. La cassa toracica serve a proteggere gli organi interni. Ma lui non ascolta, vuole la vita sottile, e dopo una lunga ricerca trova un chirurgo in Turchia disposto a operarlo senza parlargli di pericolo.
Eppure i discorsi sulla gabbia toracica devono rimanere impressi nel suo inconscio, tanto che al risveglio dall’anestesia ricorda distintamente di aver sognato un canarino che usciva dalla gabbia e volava via.
Passioni
Quando intervisto R.A., mia figlia ha tredici anni. Se fosse stato un altro periodo, un momento qualsiasi del nostro passato, le avrei mostrato le foto in rete per riderne insieme. Lei avrebbe fatto una smorfia, commentando: è un pupazzo?
Certe volte immagino scene familiari con lei tredicenne, come sarebbe stata la nostra vita se lei fosse rimasta la bambina che era: capricciosa, viziatissima, petulante, cocciuta. E noi, io e mio marito, a lamentarci, senza sapere che quella era la quiete. Grati – direi oggi. Non abbiamo avuto abbastanza gratitudine.
Sempre nel passato avrei accettato di intervistare R.A. per il mio interesse nei confronti delle persone che girano a vuoto alla ricerca d’identità. La passione per i mostri: c’è stato un tempo in cui potevo permettermi le passioni, uno sguardo sul bizzarro con il conforto della distanza. In quel tempo mi piaceva rintracciare l’origine, il momento in cui l’esigenza anomala si era manifestata: trauma? evento psicotico? il bambino che si guarda riflesso nella vetrata del salotto e si vede sproporzionato.
Ora è lavoro.
L’incontro
Come mi trovi dal vivo? – la prima frase di R.A., nella hall dell’albergo dove ci incontriamo.
A Roma, per partecipare a un programma televisivo, ha tutto spesato: viaggio, vitto, albergo cinque stelle. Sia chiaro: nulla di eccezionale per lui, abituato al lusso, viene da una famiglia di proprietari di miniere, lo sapevo?
Accavallando le gambe – Oggi sono felice al novanta per cento – dice. Il dieci sono due operazioni in programma nei prossimi mesi. Quella che maggiormente gli sta a cuore è il cambio occhi. Con gli occhi chiari si riterrà felice al cento per cento.
In India fanno un’operazione, vietata nel resto del mondo, che toglie con il laser la pigmentazione dell’iride, da marrone – il colore dei suoi occhi – diventa celeste limpido. Ok, il rischio è quello di danneggiare la vista, addirittura di perderla, ma sono veramente pochi i casi, uno su un milione.
Chiedo se abbia mai temuto di morire durante un intervento.
Ha rischiato la vita diverse volte – confessa. Però quando ti rimetti in piedi e ti guardi allo specchio... quell’istante che non saprebbe come descrivere, quella sensazione precisa. Può dire solo che per quell’istante lui è disposto a tutto.
Istante?
Col passare dei giorni trovi difetti, è normale, subentra il desiderio di modificare altro per raggiungere la perfezione.
Ogni volta, ad aspettarlo fuori dalla sala operatoria, Fernanda. Sempre Fernanda a convincerlo che adesso è bellissimo, se solo potesse guardarsi con i suoi occhi. Lui di lei si fida.
Lo sollecito a parlare dell’infanzia per capire se già lì ci fossero state avvisaglie del disagio (che con lui non chiamo disagio, ma voglia di cambiare). Che bambino è stato, amici, i genitori lo amavano.
Lui mi parla del nonno, proprietario di miniere di carbone, un uomo straordinario dedito al suo lavoro. Non che lui, R.A., sia mai sceso in una miniera, ha visto solo qualche foto di sfuggita.
Gli faceva paura l’idea degli uomini sottoterra nel nero e nel chiuso – usa la parola chiuso. Da bambino gli incubi, sognava di essere imprigionato nella miniera e di non riuscire a venir fuori. Ha vaghi ricordi di questi sogni che vuole dimenticare, chissà – s’interroga – se la sua ricerca di bellezza non sia una fuga dal buio, dal brutto in generale.
Gli uomini neri lo spaventano – dice.
Il naso perfetto
R.A. fa discorsi sconnessi, procede per associazioni arbitrarie che non riesce a spiegare, come gli uomini neri, di colore, che lega ai minatori, ma in verità – precisa – lui i minatori non li ha mai incontrati di persona. Ha visto solo il nonno, doppiopetto blu, camicia con le iniziali. Questo nonno geniale, così lo definisce, un esteta che ha avuto tre mogli, l’ultima di cinquantun anni più giovane di lui.
Passa da a un argomento a un altro, R.A., impossibile fargli seguire un filo logico. In questo ricorda mia figlia, ma non so se il collegamento dipenda da me, che non riesco a distogliere il pensiero da lei. Forse nessuno e niente ricorda mia figlia, sono io che vedo mia figlia ovunque. Ogni cosa mi riporta a lei, per strada, su un treno.
Non a quello che è davvero, ma a quello che avrebbe potuto essere.
Non alla ragazzina nel letto di ospedale che è oggi. Quella che dice: voglio rimanere qui per sempre, fuori mi fa paura.
R.A., vestito di lustrini, mi riporta all’adolescente che poteva essere lei.
Colori sgargianti, capelli lunghi, ciglia finte, voglio le ciglia finte, a quanti anni posso rifarmi le tette, mamma?
E io a lamentarmi con le amiche: queste ragazzine. I social, TikTok, modelli devianti, come si fa a tredici anni a desiderare le tette? A tredici anni mi dici che il tuo più grande sogno sono le tette. Colpa dei filtri, con i filtri si vedono per come dovrebbero essere secondo i canoni stabiliti. Da chi poi? L’algoritmo decide la bellezza, cos’è la bellezza – tutti i discorsi che avrei potuto fare se mia figlia un giorno non avesse scelto di sparire in vari modi: non mangiando, tagliandosi i polsi. Si è sotterrata, chiusa nella cesta di giocattoli. Non si è fidata dei miei occhi.
Anche R.A. parla di filtri. Con i filtri Instagram ha avuto la possibilità di vedersi corretto. Se pensa a trenta, quarant’anni fa: sua madre non ha avuto questa chance. Parliamoci chiaro, nel 2023 hai gli strumenti per individuare la tua immagine migliore velocemente.
Abbassando il tono di voce confessa di avere un grave problema al naso.
– Se lo tocco ancora, muore.
Allo stato attuale il suo naso è composto da cartilagine sottilissima, pertanto non può sottoporsi a ulteriori interventi. Diventerebbe nero e morirebbe – ripete, come se stesse parlando di una persona, una parte per il tutto.
Ecco la sofferenza più grande della sua vita – dice. L’idea di non poter avere un naso perfetto.
Grati dei capricci
E mi sembra di parlare con un adolescente, di nuovo mia figlia, quella che vorrei fosse.
Sarebbe bello potersi stupire della superficialità. Scandalizzarsi per i ragionamenti frivoli, le pretese fuori misura; intorno ai nove anni ha chiesto di conoscere Damiano dei Måneskin, non tra la folla a un concerto, proprio uscirci a cena per scambiare quattro chiacchiere. Riteneva la cosa possibile perché su internet aveva trovato molti bambini che chiedevano di incontrare i loro idoli e li incontravano. E io a spiegarle che si trattava di bambini malati, in ospedale, e quello era il loro ultimo desiderio.
In pochi anni mia figlia ha chiesto telefonino, iPad, vacanza in Australia, tappeto elastico del diametro di sei metri, fon Dyson + piastra.
Poi sono arrivati i dodici anni e ha smesso di desiderare.
Allora oggi, di fronte a R.A., mi pare di tornare indietro, a un’epoca piena di capricci, quella in cui io e mio marito avremmo dovuto essere grati.
Lo stesso R.A. adesso mi appare giovane, troppo giovane, al punto che sento un impeto di protezione: dirgli che la televisione italiana lo invita per ridere di lui, spingermi a trattenerlo, non andare.
Io amo l’Italia – dice lui – perché l’Italia ama me.
E mi racconta di episodi di discriminazione in altri paesi. In un famoso locale di Parigi gli hanno impedito di entrare sostenendo che non avesse il dress code giusto. Il dress code lui, capisci? Oppure in Turchia, quando la polizia lo ha fermato per oltraggio al pudore e attentato ai costumi, per fortuna è intervenuta l’ambasciata brasiliana.
Voglio sapere la verità? se lui fosse rimasto in Brasile avrebbe fatto la vita del ricco signore coi soldi delle miniere, questa è la verità – si sfoga. Ma R.A. è un’anima libera.
Alla domanda su come immagina le miniere di famiglia, risponde: buie.
Io, che in un libro ho letto del canarino delle miniere, immagino il canarino. Serviva a segnalare quando il metano o il monossido di carbonio andavano oltre i livelli di guardia. Se il canarino moriva, i minatori sapevano di dover scappare.
E dunque, io che sono qui a raccontarvi questa storia, mi soffermo sul canarino. A quel canarino che avvisa del pericolo, a quella parte per il tutto che muore un attimo prima dell’umanità, vorrei dare il volo: via dal buio, dalla cassa toracica. Dai letti di ospedale.
Il racconto è tratto dall’ultimo numero di Sotto il vulcano, n. 9/10, febbraio 2024, a cura di Rosella Postorino, Feltrinelli
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