Ci dev’essere stato un tempo in cui non ci occupavamo tutti di Taylor Swift, ma io quel tempo non me lo ricordo più. Mi sembra che abbia sempre fatto parte della mia vita, che fosse presente al mio orale di maturità, che una sua canzone risuonasse in sottofondo mentre davo il primo bacio.

So cose molto specifiche su di lei che ho imparato non so come, non so quando, non so perché. I nomi dei suoi tre gatti per esempio, che posso citare senza esitazione: Meredith Grey, Olivia Benson, Benjamin Button.

So chi le ha spezzato il cuore e che il suo secondo nome è Alison, che ha vinto 14 Grammy e le piace cucinare. So queste e altre cose, ma se mi puntassero una pistola alla tempia e mi chiedessero di elencare dieci titoli di canzoni di Taylor Swift, è una questione di vita o di morte, finirei sparata. Forse non arriverei nemmeno a cinque.

Incomprensione

Ci tengo a dire che pochi atteggiamenti mi risultano più insopportabili di quello di chi fa sfoggio di non interessarsi a qualcosa di molto popolare. Non guardi Sanremo, non ti piace la Nutella, non hai Instagram. Va bene, allertiamo subito l’Accademia di Svezia perché tu possa essere insignito del Nobel per Staceppadicazzo.

Non è per questo che non ascolto Taylor Swift e non mi sento moralmente superiore a chi conosce a memoria tutte le sue ere. Non ho niente contro gli swifties, ho molti amici swifties, e tutti presto o tardi mi hanno spiegato le ragioni della loro devozione.

Al contrario, mi cruccio: vorrei capire il trasporto, essere tra quelle che si sono accampate fuori da San Siro giorni prima del concerto, coperte di braccialetti dell’amicizia, che mentre scrivo stanno decidendo cosa mettersi per andare a sentire dal vivo la loro preferitissima, che hanno fatto la fila online per accaparrarsi i biglietti mesi e mesi fa. Io la fila online l’ho fatta solo per Paul McCartney e questo è tutto ciò che ho da dire sulla mia appartenenza generazionale.

«L’ultimo album è un po’ il suo momento Joni Mitchell» mi ha detto un amico per convincermi a dare alla Taylor – la chiama così – un’altra possibilità. L’ho diligentemente messo in riproduzione, come avevo fatto con quelli precedenti, e mi sono arenata alla sesta traccia, purtroppo senza trovare sentori di Joni Mitchell.

Cos’ho che non va? Quale patologia mi affligge? Mi chiedo, mentre mi scontro ancora una volta con la realtà dei fatti e la solitudine che ne consegue: a me la Taylor non piace. E non è che nel tempo libero mi ascolti solo Mozart e Captain Beefheart, anzi, il mio Spotify wrapped del 2023 era tutto fuorché sofisticato.

Troneggiava Olivia Rodrigo, tre posti su cinque della mia classifica dei brani più ascoltati erano occupati da lei (gli altri due dai The The e dai Neri per caso, non facciamoci troppe domande). Anche senza i risultati statistici alla mano invece sono abbastanza sicura di essere nell’ultimo percentile degli ascoltatori della Taylor.

Giuro che ci ho provato, tale è la mia smania di far parte della massa e di fondermi con lo spirito del tempo. Ho letto tutti gli editoriali, ascoltato tutti i podcast, studiato le parafrasi dei suoi testi fatte da Claudio Giunta, swiftie d’eccezione.

Persino Natalia Aspesi, che ha compiuto da poco 95 anni, la capisce meglio di me (immagino capisca meglio di me quasi tutto, in effetti). È bionda, è buona, si veste malino. Tutti spiegano che la chiave del suo successo è essere una tipa qualunque. Solo che non la è più da un pezzo: la Taylor fattura come una multinazionale.

La dinamica della fandom

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Sono scema ma non del tutto e lo so che in questi fenomeni la musica gioca un ruolo marginale. Il fanatismo – anzi la fandom, per usare una parola meno negativa e più moderna – si autoalimenta come una palla di neve dei cartoni animati. A un certo punto non importa più che milioni di mosche girino intorno alla stessa piota di sterco, ma si inizia piuttosto a godere di quel senso di comunità, di partecipazione condivisa a qualcosa, di avere milioni di simili nel mondo (nessuno vuole essere davvero unico).

A me forse, più che la Taylor, manca questa cosa qui, una passione travolgente e totalizzante che mi faccia sentire parte di un grande insieme. Non riesco a ricordarmi l’ultima volta in cui ho provato entusiasmo, e forse questa è la frase più triste che leggerete questa settimana, ma non per questo è meno vera.

Mi piacciono molte cose, per cui nutro un tiepido trasporto, ma quella smania non c’è più da molto tempo. Forse non c’è mai stata? Una sera del 1998, mentre viaggiavamo verso casa dei miei nonni a Bologna, mio padre mi disse che potevamo prendere l’uscita per Casalecchio e andare al concerto delle Spice Girls, che all’epoca erano la mia ragione di vita, o quantomeno l’unica musica che avessi mai ascoltato per scelta (avevo sei anni).

Decisi tuttavia di andare a casa, perché volevo fare i biscotti con mia zia Titta. La parola fanatismo non sarebbe sufficiente a descrivere l’ossessione che nutrivo invece nei suoi confronti, basti dire che volevo stare in bagno con lei mentre faceva la cacca e siccome questo la inibiva io accettavo di mettermi un asciugamano in testa – come un costume da fantasma ma senza buchi per gli occhi – e sedermi su un panchetto in un angolo, in silenzio finché non aveva finito.

Ventisei anni dopo non aver visto le Spice rimane il più grande rimpianto della mia vita, ma mi riconosco in quell’indolenza, un po’ meno nell’atteggiamento morboso nei confronti di mia zia, a cui voglio ancora molto bene ma che ora mi permette di stare in bagno con lei anche senza cappuccio del Ku Klux Klan. La Taylor ha mai fatto niente di così generoso per le sue fan?

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