Nell’ultimo romanzo dello scrittore, Manifesto criminale, Harlem è una bomba sul punto di esplodere. È la New York della fine degli anni Settanta. Un luogo di corruzione, poveri cristi, soprusi e cani da guardia
Nell’estate del 1977 New York è esplosa. In seguito a uno dei blackout più estesi che la città avesse mai vissuto, durante una stagione tra le più calde che avesse mai sopportato, in uno dei momenti più turbolenti della storia d’America, ci si preparava a una rivoluzione lampo, che avrebbe, nel giro di meno di dieci anni, cambiato l’aspetto esteriore e interiore della Grande Mela per sempre.
I quartieri poveri e “problematici” sarebbero insorti; le masse minoritarie, generalmente silenziose, avrebbero invaso le strade; sarebbe nato l’hip-hop e le voci di protesta si sarebbero moltiplicate e fatte sentire; sarebbe incominciata l’opera di pulizia del centro di Manhattan e si sarebbero rintracciate le mappe cittadine sulla base, non più delle etnie, ma della rilevanza sociale.
Di libri sull’argomento ne sono stati scritti tanti – vale la pena di citare Ladies and Gentlemen, the Bronx is Burning, di Jonathan Mahler, mai tradotto in italiano – e così di romanzi ambientati su quello sfondo quasi apocalittico – il celebratissimo Città in fiamme di Garth Risk Hallberg, ad esempio, pubblicato in Italia da Mondadori nel 2015 per la traduzione di Massimo Bocchiola.
Ma il sentiero lungo il quale si è arrivati a quel momento, all’esplosione del Bronx, all’inizio della rivoluzione, al fuoco che avrebbe messo a nudo il marciume che scivolava sotto la pavimentazione stradale della città «così vicina all’inferno che il fumo esce dai tombini», è un territorio ancora relativamente vergine.
B-movie
C’è una serie di romanzi, considerati per molto tempo troppo di genere per fare letteratura e di recente parzialmente recuperati da SUR, che vedono il proprio protagonista, un detective in stile hard boiled, nero di Harlem, aggirarsi per la New York degli anni Settanta, su uno sfondo da cinema blaxpoitation e su un tappeto funkeggiante. John Shaft, si chiamava il detective, e i romanzi rintracciabili in Italia sono Shaft e Shaft tra gli ebrei (entrambi ritradotti da Ettore Capriolo rispettivamente nel 2016 e nel 2017), scritti da Ernest Tidyman e poi trasposti in varie versioni per la televisione e per il cinema, con successo alterno.
Il clima è quello dei film di serie B, prodotti con pochi dollari, che celebravano la cultura afroamericana di quei tempi, ne esaltavano il costume e la infarcivano di risse senza quartiere a colpi di arti marziali, qualche mitragliatrice, molti cappelli piumati, molta malavita e solitamente un solo eroe per molte donne – all’inizio, poi si diffuse la felice abitudine di avere come protagoniste donne nere dal carattere forte e dal calcio facile, che contribuì ad affermare attrici poi diventate di culto come Pam Greer e Gloria Hendry. Insomma, il seme della rivoluzione c’era ed era anche abbastanza evidente, ma finiva travolto in un vortice colorato di pseudo-violenza, affermazione e ammiccamenti. Molto oltre non si è andati, per lo meno nei territori nei quali in effetti la rivolta sarebbe cominciata.
Nel nuovo romanzo di Colson Whitehead, Manifesto criminale – edito da Mondadori e tradotto da Silvia Pareschi – lo sfondo è simile e il periodo lo stesso, ma l’approccio tutt’altro che assolutorio. La Harlem che l’ex criminale di piccolo calibro, ora ripulito e determinato a stare lontano dai guai, Ray Carney osserva dalla vetrina del suo mobilificio è una bomba sul punto di esplodere. Il quartiere ribolle e tra la polizia, corrotta e bianca, e i suoi abitanti è un fronte aperto; il fondo di un braciere sul quale soffiano i Black Panther e il Black Liberation Army, ma che la microcriminalità più o meno organizzata desidererebbe che si spegnesse in silenzio e senza scottare nessuno.
Carney non ne vorrebbe sapere, ma l’insistenza di sua figlia perché le trovi dei biglietti per un concerto dei Jackson 5 lo fionda di nuovo nei bassifondi, a ristabilire contatti che preferirebbe dimenticare ed esigere favori che non avrebbe mai voluto riscattare; a barare a tavoli di poker ai quali avrebbe preferito non sedersi e inseguire una vita che non credeva avrebbe mai più vissuto. Così facendo, apre il sipario su quel mondo dimenticato che è la New York di prima del 1977, prima dell’esplosione. Un luogo di corruzione, poveri cristi, soprusi e cani da guardia.
Odissea picaresca
Whitehead, saltando dal 1971, al 1973, fino al 1976 – anno del bicentenario –, dipinge un quadro preciso e spietato, senza risparmiarsi l’ironia e giocando con la stessa blaxploitation dalla quale Tidyman – un bianco di Cleveland, premio Oscar per la sceneggiatura di Il braccio violento della legge, che certamente conosceva abbastanza bene l’argomento, ma che rispetto a Whitehead ha un indubbio problema di appartenenza – aveva pescato a piene mani.
Lungo l’odissea picaresca di Carney c’è Harlem, in un dipinto corale che coglie perfettamente l’epoca e ne restituisce con precisione suoni, sensazioni, colori e odori. Una specie di mosaico di pensieri e aspirazioni nel quale ognuno dei personaggi che Carney incontra lungo la sua strada, tutti con una specialità e con un traffico illecito di riferimento, ma anche con un sogno infranto e un amore lontano, ha la sua fetta di malinconia da condividere con gli altri e con il lettore in un modo che ricorda i marinai perduti di Jean-Claude Izzo.
Il ritratto di quella città puzzolente e avvilita è talmente preciso e vivido che lo stesso Whitehead, verso la fine del romanzo, esce dalla metafora e fa dichiarare al suo protagonista che l’ambiente nel quale è immerso è così marcio oltre il segno che non può che meritare di essere curato col fuoco, in una specie di profezia già avverata per la quale l’incendio reale che Carney è pronto ad appiccare da un momento all’altro, anticipa con sinistra esattezza quello metaforico che sarebbe divampato nel 1977 e le centinaia di altri, di nuovo tangibili e terribili, che sarebbero scoppiati nei quartieri radendo al suolo negozi, auto e magazzini. Per non lasciare niente, se non terreno sterile sul quale provare a ricostruire.
La risalita
Dopo l’estate del 1977, per New York è cominciata una salita che, attraverso gli ambigui anni Ottanta in cui il sogno yuppie si mescolava all’amarezza della crisi scampata, ha condotto all’epoca di Rudy Giuliani, della tolleranza zero, e della rinascita forzata di una città bruciacchiata e bucherellata, così provata dall’odio da non riuscire mai a tenerlo fuori dalla sua letteratura e dal suo cinema. Prima di quel momento, però, la salita aveva l’aspetto di una parete di roccia liscia che i più avrebbero giudicato inscalabile.
La città era persa, condannata, finita e destinata a implodere lasciando dietro a sé un cratere maleodorante. Osservarla da dentro, ormai, è un privilegio per pochi, perché poche sono le testimonianze cinematografiche e letterarie che hanno saputo rendere giustizia a un tempo nel quale non sembrava ci fosse nulla che valesse la pena raccontare, o che i posteri avrebbero potuto ricordare non senza un velo di nostalgia. Eppure, con il giusto vettore e la voce più adatta, Whitehead è riuscito nell’impresa, utilizzando gli espedienti di un romanzo crime e il linguaggio di un genere dimenticato per fotografare un’epoca della quale poco è rimasto. Andando a scavare sotto la cenere, dove, come un novello Howard Carter, ha sfidato una maledizione per riportare in vita una città perduta.
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