Magari, la parola chiave è magari. Se solo potesse succedere davvero, ecco, sarebbe bello, sarebbe sorprendente, se solo potessimo svegliarci domani mattina in qualche angolo del Paese, uno qualsiasi, e scoprire che esistono un settore, un’attività, dove accadono le stesse cose viste sul palco dell’ultimo X Factor. Nelle Università, per esempio, nei consigli d’amministrazione, oppure in Rai, nei concorsi pubblici, nei giornali, nelle nomine della politica.

Un posto insomma dove sia premiata la bravura. La bravura e anche la bellezza, pur nella polverosità di questo concetto. Una volta ne chiesero conto a un intellettuale colombiano, cos’è gli domandarono, maestro, ci dica cos’è? «La bellezza è quando la gente se ne accorge», rispose allora l’uomo con un sospiro, si chiamava Francisco Maturana, e allenava la Nazionale di calcio.

Avere 17 anni

Magari potessimo abitare in un gigantesco X Factor 2024, un posto dove di bellezza ce n’è stata tanta e ce ne siamo accorti, ce ne siamo accorti tutti, pure quelli che non hanno preso il diploma al conservatorio e per fortuna gli è permesso lo stesso di comprare un disco, oppure sentirlo in streaming su qualche nuvola. Anzi, possono perfino dare materia e sostanza al proprio gusto, farlo diventare televoto a un talent, esprimere una preferenza, che rivolgimento, non ci siamo più abituati, chi se le ricorda più le preferenze tra listini bloccati e astensionismo.

È un luogo davvero eccentrico, questo show, una gara tra musicisti dove due band di ragazzi che suonano bene la batteria e la chitarra (i Les Votives), oppure la tromba e il sassofono (i Patagarri) possono arrivare in finale, possono piazzarsi secondi e terzi. Un concorso per cantanti che viene vinto da chi ha la voce più bella, addirittura, che sovvertimento, per giunta si tratta di una ragazzina di 17 anni (Mimì Caruso), come 17 ne ha l’altro finalista (Lorenzo Salvetti).

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Magari ci fosse in giro un altro guscio come questo, dove gli adolescenti sono ascoltati prima di essere giudicati. Un luogo dove c’è posto per i tuoi desideri nell’età in cui ne stai cercando uno, quando provi a capire chi sei, quando aspiri a uno spazio abitabile per un’anima che senti sbeccata e per un corpo che non ti piace, nel passaggio tremendo e spaiato di una metamorfosi. Chiedono di essere considerati e di restare liberi, potersi dileguare quando vogliono. Cercano delle orme credibili per metterci i piedi dentro o per avere la sfacciataggine di rifiutarle, farle sparire con una ramazza, in quel passaggio che una volta Maria Corti ha definito come un senso di inquieta ricerca che noi adulti abbiamo conosciuto e rimosso, incapaci di ricordare la faticosa esplorazione delle pareti della vita, a tentoni, per scoprire ciascuno il proprio tesoro, finché non se ne rintraccia un altro, più forte, che lo scalza.

Cosa sarà di te, Mimì, fra cinque anni, e fra dieci, chi lo sa. Questo abbiamo pensato tutti insieme con il suo giudice Manuel Agnelli l’altra settimana, subito dopo la finale, quando la ragazzina ha domato il pezzo più micidiale di Mina (Mi sei scoppiato dentro il cuore) e uno dei tre-quattromila capolavori di Lucio Dalla (La sera dei miracoli) davanti a decine di migliaia di persone in Piazza del Plebiscito a Napoli.

Le star e le comete

Ecco, da questo show così estremo, da questo posto tanto strambo e unico, ogni anno si esce immaginando di aver intravisto in controluce qualche nuovo fenomeno destinato a grandi cose, a solcare i mari della musica internazionale come in effetti è accaduto ai Måneskin, o almeno in grado di sollevarsi dal mucchio come Giusy Ferreri, Mahmood, Marco Mengoni, Francesca Michielin, Noemi, Michele Bravi, adesso Gaia.

È nata una stella, pensiamo. La favola, il sogno, questa roba qua. Eppure a XF bisognerebbe forse accostarsi con un’altra lente, con uno sguardo privo di quella sufficienza che fra un anno tireremo di nuovo fuori rimproverando e chiedendo dove sono finite le comete, che fine ha fatto Sofia Tornambene e dove sono andati i Baltimora, Giò Sada, i Soul System?

Esiste questa convinzione diffusa che attribuisce a XF quasi il dovere di inventare delle star, tutte star, sempre, ovunque, comunque, un atteggiamento in linea con il nostro tempo dove si misurano le biografie in base alle performance, le promesse mantenute o le aspettative deluse, i numeri, dateci i numeri, «la schiavitù del risultato» la chiama Manuel Agnelli.

Nel tempo, e soprattutto nel 2024, questo posto così assurdo e singolare è riuscito invece a diventare anche altro, per esempio un laboratorio di accettazione della realtà, un luogo che invita a leggere il trionfo come il destino per una minoranza, per delle eccezioni. A noialtri tocca cercare una via, tocca costruire qualcosa di solido robusto e gratificante sulle scorie di un’apparente sconfitta, sempre che qualcuno sappia poi davvero cosa possa dirsi una sconfitta, visto che perdere è la sorte più comune e più ovvia.

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Non ci sono solo gli stadi

Una sera di sette anni fa, Rita Bellanza fece piangere tutti con la più bella versione mai sentita di Sally, le mettemmo addosso la corona di favorita e allora sbandò, finì per fare i conti con i fischi. Adesso su Instagram posta soprattutto i concerti che va a sentire, Elisa, i Depeche Mode, ma è comunque sé stessa quando si accendono le luci sul palco del Seconda Classe di Brescia, forse è finanche più sicura, e allora Rita canta, questo voleva e questo ancora vuole. Uscito da XF, pure Emanuele Dabbono forse sognava di diventare una star: oggi collabora ai pezzi di Tiziano Ferro. Tony Maiello ha fatto il broker e poi ha venduto i muffin nei bar, prima di accettare l’idea che scrivere canzoni per altri, entrare nell'industria, produrre, significava lo stesso vivere della sua passione. Jury Magliolo è andato a fare il corista per Renato Zero, Matteo Becucci ha preso una strada da attore di teatro, i nomi di Lorenzo Licitra e Martina Attili si incontrano nei cartelloni dei musical.

Questo fa XF alle spalle del resto d’Italia. Questo deve fare. Dare un’occasione. Prova a insegnare che si può essere musicisti appagati anche senza riempire gli stadi con la propria foto a torso nudo stampata su un manifesto. Avvia al successo e istruisce alla fallibilità, ti instrada al mercato e ti sollecita a non restarne prigioniero, forma al professionismo e prepara ai rovesci, una sera hai il pezzo giusto e un’altra sera vai al ballottaggio, perché Franco IV e Franco I avranno pure scritto t’amo sulla sabbia, ma oggi sulla sabbia è scritta ogni cosa, tutto, quasi tutto, e con onestà lo dobbiamo studiare, con affetto lo dobbiamo capire (ma questo è Eugenio Finardi).

Lo strappo ricucito

A X Factor un sì è un sì, un no è un no. Non c’è nessuno che ti dice le faremo sapere e dopo il colloquio sparisce. Al tavolo sono seduti quattro adulti che devono assumersi la responsabilità di una relazione, una coscienza che non vive soltanto nella gigantesca fatica della didattica, con le prove, i pezzi da assegnare, la ricerca dell’arrangiamento giusto, ma assume su di sé pure un compito simbolico, la costruzione di un ponte fra le generazioni, la ricucitura di uno strappo.

È quello strappo che misuriamo ogni giorno dentro le nostre case, le nostre scuole, i luoghi della formazione, dove qualcosa nel passaggio di consegne deve essersi interrotto, chi lo sa perché, qualcosa deve essere rimasto imbrigliato dentro una rete di incomprensioni.

Al tavolo di XF quei quattro adulti sono obbligati a vivere l’indecenza di giudicare come un atto di coraggio, riempiendo il vuoto dei molti no che i grandi non dicono più e rispondendo al bisogno dei piccoli di essere considerati. Non accade spesso, non accade ovunque. Servono dosi enormi di umanità per farlo e farlo bene, serve avere delle rughe, aver riparato qualche crepa, serve un mondo dentro per essere capaci di riassumere in pochi istanti un parere che può segnare la speranza di un ventenne.

Il giudizio

Quei quattro adulti compendiano e riscrivono la quotidiana pena di insegnanti e di educatrici, la paura di sbagliare un tono, una parola, nella furibonda lotta dei grandi per capire i piccoli, schiacciati come siamo dall’angoscia che ci prende quando interviene la consapevolezza di essere stati troppo presenti se bisognava farsi da parte, e di essere stati troppo da parte quando si doveva essere presenti.

Sotto le sembianze di una sentenza, i sì e i no del tavolo di X Factor sono un atto di generosità, una cessione di esperienze e un trasferimento di conoscenza, sono la riattivazione di una catena che nei luoghi di lavoro è stata per esempio spezzata dai prepensionamenti. Non c’è più nessuno a cui chiedere come si fa questo, come si faceva una volta, cosa possiamo conservare del passato e portare nel futuro.

Nella difficile ricerca di un equilibrio con il mondo di fuori, ogni tanto pure a X Factor si affaccia la tentazione della retorica. Succede quando un giudice sente il dovere di escludere dal gioco una bella voce perché non ti vedo pronta, perché qui dentro tutto è diabolico, sai, infernale, apocalittico, non ce la faresti, quando insomma interviene la tentazione di sapere tutto dei loro pochi anni per via dei nostri che sono cento (ma questo è Lucio Dalla). Quando insomma la vista si appanna e sparisce dalla scena la cognizione che nulla in fondo sappiamo, non c’è nulla che valga per tutte e tutti, nulla sappiamo di cosa possa davvero proteggere, se un sì o un no, e poi proteggere da cosa. In genere sappiamo che la musica dei nostri vent’anni era migliore, così come i nostri genitori erano certi che la loro rispetto alla nostra fosse un’altra cosa. È sempre un’altra cosa la vita degli adulti.

Per fortuna sono lampi di paternalismo brevi, sono intrusioni fugaci del mondo reale nel paradiso del giovedì. In genere fra il tavolo e chi partecipa si stabilisce più stabilmente un percorso di istruzione che andrebbe inserito tra le linee guida di un ministero. I sì e i no (il voto) arrivano insieme a una valutazione formativa. Ti dicono dove hai sbagliato, come fare meglio, la prossima volta te lo ricordi. È la differenza tra una critica e un giudizio. Assomiglia all’utopia di una educazione fra pari, senza cattedre, una condivisione, come in un liceo occupato. Chi ne sa un po’ di più dà a chi ne sa un po’ di meno, e domani mi restituirai tu qualcosa.

Il sondaggio

X Factor è un campo concimato dalla curiosità e dal desiderio di capire, mescolarsi, ma non con la complicità dei padri e delle madri che si fumano una canna con i figli per fare i giovani. Una recente indagine demoscopica promossa dall’associazione Con i Bambini e condotta da Demopolis riferisce come il dialogo che gli adulti propongono si concentri nella maggioranza dei casi sulla vita scolastica e sui fatti di cronaca, mentre gli adolescenti trovano in rete l’habitat dove sperimentare dinamiche emotive. Il loro paracadute.

L’86% dei grandi pensa che i figli siano compresi meglio in famiglia, i ragazzi invece mettono al primo posto gli amici, sono 4 su 10 quelli che parlano con i genitori. Credono che i grandi vedano solo pericoli e non opportunità, eppure solo un quarto dei genitori è informato dell’alcol che consumano fuori casa. Non è curioso? Tra i 14 e i 17 anni, meno di un quinto fa sport, musica, o teatro, non ti posso portare, lo sai, ho il lavoro, ho un convegno, ho un impegno, casomai ti accompagna la nonna.

Più incontri, meno scontri

X Factor è un terreno di incontri casuali dai quali si esce tutti cambiati, grandi e piccoli. Il tavolo di quest’ultima edizione l’ha indicato nel modo più chiaro di sempre. Serviva una frattura netta con l’edizione scorsa, la più tossica, la più cupa, monca, chiusa con due giudici che battibeccarono per conto loro durante la canzone di una ragazza, senza manco ascoltarla. Un vecchio poeta la chiamerebbe una foresta di segni.

X Factor ha ricostruito la narrazione di sé. Ha cambiato faccia sui social. Ha riscritto la trama intorno al tema dell’incontro, non dello scontro. Ha scelto un cast di giudici che a sua volta diventasse squadra, in coerenza con questo sentimento diffuso di agonismo dolce che si coglie ovunque nei paraggi della nuova adolescenza, dove il bisogno di star bene con sé stessi viene prima di ogni altra realizzazione, economica o lavorativa.

Siamo pieni di storie così. Sono arrivate dalle foto scattate alle Olimpiadi e sono arrivate dai daily di X Factor, scene di teenager per i quali il piacere dell’avventura sta nella condivisione di un’esperienza, un viaggio collettivo che supera il senso della rivalità, al netto degli abusi che si possono compiere con i nomi collettivi (tutti i giovani sono così, tutti gli adulti sono così). Ovviamente all’occhio adulto paiono dei mezzi rammolliti, dei pulcini bagnati, dei conigli imbelli, lo sono da quando cominciammo a dirli bamboccioni. Hanno perso la grinta, non hanno la cazzimma, non viaggiano più, non scendono in piazza, diamine, non sono come eravamo noi. Ci siamo sempre noi, quando si parla di loro.

La narrazione

Un mondo senza cazzimma è forse il Sessantotto delle Mimì Caruso e dei Lorenzo Salvetti. Sentono l’assillo di una convivenza pacifica, ma chi lo sa, chi lo può sapere, davvero sarebbe sensato fermarsi sulla soglia di ogni certezza e chiedere a loro. Non lo facciamo mai.

Il racconto dei giovani è una moneta falsa se il potere narrativo è detenuto da chi non ha meno di cinquant’anni. Il Brain Riot è loro, ma lo conosciamo meglio noi. Gli Hikikomori sono loro, ma sappiamo tutto noi. Non li vediamo forse ogni giorno chini sui loro cellulari? Nei nostri passano le fonti giuste da consultare, passa Shakespeare, noi li sappiamo usare. Nei loro quasi sempre c’è un incubo, c’è la trap, c’è l’orrore delle canzoni con l’autotune. Qualche tempo fa, un musicista quasi settantenne come Peppe Vessicchio, un direttore d’orchestra senza nessun sospetto di complicità con effetti di manipolazione audio, ha detto invece che l’autotune è un fenomeno interessante, democratico addirittura, non solo perché allarga la platea della partecipazione e rende il canto una disponibilità diffusa, ma perché sposta l’attenzione sulla performance dalla tecnica al contenuto, dal virtuosismo alla sostanza, non a caso gli pare che sia arrivata una generazione nuova di cantautori che scrivono bene. Il punto è sempre lo stesso: mettersi in ascolto. Trovare interessante una cosa che non ci appartiene. Provare a capirla, anche senza farsela piacere.

Un nuovo tavolo

Per provare a capire meglio di un anno fa, quando lo show pareva non avesse altra strada davanti, X Factor ha smantellato il meccanismo con il quale venivano costruite le giurie, quel dosaggio degli ingredienti come se ne trovano in una favola secondo lo schema di Propp: ci metti un eroe, ci metti un cattivo, una principessa, un mago, andate e litigate, non sta forse nel conflitto la forza di una trama? Stavolta i giudici sono stati tutti imprendibili, e allo stesso tempo tutti centrati, con una loro misura, pacificati con la vita, compiuti. Non una giuria di adulti, per fortuna, ma una giuria di persone cresciute, chiamate a farne crescere altre.

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Paola Iezzi è arrivata per dimostrare come si possa cantare il pop più pop dei tormentoni estivi conoscendo lo svedese, sapendo suonare uno o due strumenti, avendo una sapienza tecnica della musica che va dai pattern della batteria ai riff della chitarra. Tutto senza nessuna ansia di doversi riscattare da chissà che cosa. È stata come l’onda di ritorno di una marea. È stata insospettabile e ironica. È stata l’icona che non sapevamo di avere. Ha giocato senza strategia, Paola è stata chiara nel senso di tersa. Ha fatto solo quello che sentiva. Ai cuccioli piace così.

Jake La Furia è stato una sorpresa perfino più grande. È arrivato dicendo di non volere in squadra persone emotive, lacrimevoli, così calate nella musica da lasciarsi attraversare e commuovere. Ha chiuso col groppo alla gola, lui che era il rapper delle Brutte Abitudini, il rapper che “la pompo forte, le dico le parole sporche”, e poi alla fine teneramente legato all’orgogliosa queer Francamente, prendendosi in giro sulle questioni di genere e la lingua che va usata. “Come lei ha imparato da me - ha detto - io ho imparato molto da lei”. La mescolanza, la casualità degli incontri, l’educazione fra pari. Achille Lauro è stato un dribbling continuo. È venuto pure lui a spogliarsi del suo personaggio di piume e travestimenti. Ha predicato impassibilità di fronte ai sentimenti durante le audizioni, è stato lo specchio al maschile della sorellanza di Paola, ha fatto il fratellone e lo scaltro produttore, anche paraculo, portandone tre su tre in finale, giocando da imbonitore e venditore di piazza con il Senato, baby.

Manuel Agnelli

Ma forse non avremmo avuto il miglior X Factor degli ultimi anni e forse di sempre senza il ritorno di Manuel Agnelli, il puro, rientrato con uno spirito diverso dall’uomo che ebbe movimentati rapporti una volta con Emma, un’altra con Mika o con Hell Raton. Non ha rinunciato a un solo grammo della sua intransigenza. Ha spinto le sue convinzioni sulla funzione dell’arte fino al grado zero del dubbio. Ma si è presentato con uno sguardo più pieno e più aperto sull’adolescenza. All’ultima ragazza scartata prima dei live, non ha detto sei brava ma non sei pronta. Manuel ha bocciato in un modo nuovo. Le ha detto: sei brava, non sei pronta, vieni prima nel mio locale a suonare davanti alle persone vere, fatti le ossa, fatti i muscoli, e dopo ci buttiamo, ti aiuto io, non scompaio.

È tornato con un bagaglio nel quale sono contenute l’esperienza da guida spirituale dei Måneskin, l’attenzione per la crescita in teatro di Casadilego da cui era stato commosso a XF 2020, la paternità di una ragazzina che cita spesso nelle interviste, lei e la sua band underground. È tornato con l’aria dell’uomo in cammino, come quel padre di Cormac McCarthy che in mezzo alla catastrofe, in un mondo dal quale “gli uccelli se ne andarono”, continuava a rassicurare il suo bambino: noi portiamo il fuoco, crediamo nella vita, conosciamo il coraggio e la forza che servono ogni giorno per alzarsi dal letto, perché non c’è niente che sia per sempre (esatto, sì, questi sono gli Afterhours).

Giorgia è stata una conduttrice sorprendente, rispettosa, ferma sull’uscio della casa. Sarebbe una giurata meravigliosa. È che forse non ce la fa a dir di sì o dir di no, e più di una volta, forse dieci, forse cento, pareva che avesse una parola da aggiungere, ma ha avuto preferenza di no, c’è già così tanto rumore, meglio stavolta sottrarsi.

Magari essere come Giorgia, non sempre, ogni tanto, davanti a un panorama nel quale figli e nipoti faticano a pensare in termini di speranza.

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Noi, loro e Madame

Alle Mimì e ai Lorenzo abbiamo consegnato una Terra in sofferenza; un’Europa che vogliamo rinserrare dopo avergli detto che dovevano imparare le lingue perché confini non ce ne sono più; un Paese con un debito pubblico che dovranno pagare loro; un futuro che non gli garantirà la pensione dopo un presente che li priva di un reddito, una casa, un prestito in banca.

Bisognerebbe chiedergli scusa per quanto abbiamo combinato, invece gli diciamo che sono fragili, loro, glielo rimproveriamo come un disturbo di serie, un guasto, senza domandarci poi da dove venga. Lo facciamo quando la vita esagera (questo è Marco Mengoni). quando la cronaca ci porta sotto gli occhi una dipendenza, una disperazione, un branco violento. Allora c’è da qualche parte uno psicologo in genere settantenne che ha qualcosa da dire, c’è un’intera generazione che diventa irredimibile, oppure due, i grandi e i piccoli. Succede quando diventano invisibili le altre migliaia di ragazze e ragazzi che studiano o lavorano, le Mimì e i Lorenzo che dentro le camerette diventano diamanti e pensano alle canzoni.

Ascoltare significa dare voce. Madame ha scritto nel 2024 il pezzo con cui Angelina Mango ha vinto Sanremo e quello con cui Mimì ha sbaragliato XF. Uno si chiama Dove si va e l’altro La noia. È solo musica leggera, ma la dobbiamo ascoltare. Uno dice: «Non puoi giudicarmi, io vado in terapia / Ho i problemi dei grandi, sono fatta così». L’altro: «Non ci resta che ridere / in queste notti bruciate». Ecco, magari. La parola chiave è magari.

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