- È appena uscito Serge, il nuovo romanzo di Yasmina Reza. Tra i narratori in circolazione, Reza è probabilmente la più sintonizzata col mondo; quella con l’orecchio più accordato col suono di quella borghesia sclerotica, esausta e tragicomica con cui spesso identifichiamo il (nostro) mondo.
- La leggerezza orchestrata da Reza è terribile. È quella della vacuità, dell’assenza di fondamenti e radici, leggerezza che non è levità né frivolezza, ma vertiginosa inconsistenza. Da grande autrice qual è ormai in modo indiscutibile, Reza sembra aver raccolto da Milan Kundera un preciso compito storico letterario: far suonare il vuoto.
- La maturità è impossibile: quella di Serge è una generazione di adulti bloccati nell’infanzia, goffi, autistici, sconfitti.
È appena uscito Serge, il nuovo romanzo di Yasmina Reza. Un libro di Reza è sempre un evento: tra i narratori in circolazione, Reza è probabilmente la più sintonizzata col mondo; quella con l’orecchio più accordato col suono di quella borghesia sclerotica, esausta e tragicomica con cui spesso identifichiamo il (nostro) mondo. Un nuovo lavoro di Reza non te lo perdi, giacché tra tutti i narratori viventi lei è certamente quella più flaubertiana. Essere flaubertiani oggi: mostrare il nesso strettissimo fra imbecillità e violenza.
La coerenza con cui Reza indaga, sistematicamente, fin dalle sue prime opere, il binomio stupidità-ferocia non lascia spazio al caso: è quello il suo tema. Che si tratti di un romanzo o di un’opera teatrale, con Reza assistiamo sempre a una situazione di incomprensione: un teatro di goffaggine, incapacità di capire e di agire, di difficoltà di lettura ed elaborazione consapevole degli eventi che genera paradossi di inarrivabile – e comicissima – brutalità.
Ci si fa più male non perché si capisce l’altro, ma proprio perché non lo si capisce. Nessuno capisce nessuno, men che meno se stesso. È una tipologia tutta contemporanea di crudeltà: la crudeltà della cretineria.
Una commedia intorno al vuoto
Prima che una narratrice, Yasmina Reza è soprattutto una drammaturga. La notorietà internazionale le è arrivata nel 1994 con la commedia Art. Quello che succede in questa danza a tre è quasi nulla: Serge ha comprato (a un prezzo molto alto) un dipinto del maestro Antrios. Il dipinto è costituito da una grande tela bianca.
Gli amici Yvan e Marc cercano di fargli capire che sulla tela non c’è nulla, mentre Serge si ostina a vedere una figura astratta nelle trame della tela.
La commedia si consuma così, in una discussione intorno a un (presunto) vuoto, indagando l’esistenza di qualcosa che forse c’è, forse no, il quadro, sì, ma anche l’amicizia, l’amore, il sesso, il senso delle relazioni e del tempo.
Qualcosa di simile accade anche in Le dieu du carnage, pièce che debutta nel 2006 a Parigi e arriva poi al pubblico internazionale nella sua versione cinematografica, Carnage, con Jodie Foster, John Reilly, Kate Winslet e Christoph Waltz e la regia di Roman Polanski.
Cosa succede in Carnage? Anche qui poco o niente, almeno in apparenza: due coppie di genitori si ritrovano per discutere una lite avvenuta tra i rispettivi figli undicenni. Nato per risolvere la questione nel modo più civile, l’incontro si risolve in una serie di feroci discussioni e scoppi d’ira, crisi isteriche e vomiti direzionati: una tavola rotonda avvelenata dove quattro perfetti esemplari della media borghesia europea fanno cortocircuitare tutte le contraddizioni possibili sui temi dell’omofobia, del razzismo, della misoginia e del classismo.
Carneficina simbolica
In fondo l’impianto drammaturgico di Reza è sempre lo stesso: un salotto – una situazione di rispettabile e cortese conversazione – dove, ad un certo punto, ci si fa del male, ci si ferisce: inizia a versarsi del sangue. Come fosse un altare pagano, il salotto diventa il luogo di uno scannamento.
È un rito. Reso mondano e astratto dalle convenzioni, ma pur sempre un rito: una carneficina simbolica. Un occidente intossicato di civetteria e buone maniere, che ha sepolto la violenza sotto il tappeto. Ma quella violenza è stata ficcata così a fondo che a un certo punto schizza fuori. La crisi di nervi è il solo spargimento di sangue che ci si può permettere.
Anche in Serge c’è un grande spargimento di sangue. Anzi, lo spargimento di sangue per eccellenza: l’Olocausto. Serge è la squinternata commedia dei Popper, famiglia di origini ebraiche la cui trama ruota intorno alle vicende di tre fratelli: Jean, il narratore; Serge, il maggiore, un cialtrone affascinante e complessato; Nana, la minore, moralista e petulante.
Tutto ruota intorno a una gita ad Auschwitz, progettata col nobile scopo di riallacciarsi alle proprie origini e al nucleo dolente della propria memoria. Il fatto che si possa usare senza imbarazzo il termine “gita” per un luogo come Auschwitz dà la misura della tonalità su cui è suonato il romanzo, e quali corde dell’osceno Reza riesce a far vibrare.
Nell’ebraismo della famiglia Popper c’è tutto il problematico rapporto di un uomo d’oggi con il Novecento: il tentativo impossibile di una liquidazione; il dovere – inesauribile e perennemente incompiuto – di essere all’altezza delle proprie tragedie; il rapporto ambiguo con un passato fattosi inafferrabile e liquido: «Con Israele piombavamo subito nell’esagerazione e nel pathos. I nostri genitori se ne sono andati senza averci consegnato altro che frammenti, residui di biografie forse affabulate, e nemmeno si può dire che noi ci siamo interessati alla loro saga. Chi ha voglia di andare a impegolarsi nella religione e nella morte?».
Davanti al grande colosso della memoria storica, quello che vince è una spettacolare inadeguatezza: «Chi è scomparso nei campi lo si può piangere solo con fanatismo. Provo un moto di simpatia retrospettivo per quell’uomo e i suoi ripetuti tentativi di trasmettere la memoria, necessariamente votati al fallimento».
Al termine di quel viaggio, esilarante e disastroso, Jean scrive così: «Non ho saputo comportarmi emotivamente in questi luoghi dai nomi cosmici, Auschwitz e Birkenau. Ho oscillato tra la freddezza e una ricerca di commozione che altro non è che un certificato di buona condotta. Allo stesso modo, mi dico, tutte queste furiose ingiunzioni di memoria non sono forse altrettanti sotterfugi per spianare l’evento e riporlo in buona coscienza nella storia?».
C’è poi una battuta fulminante, che potrebbe fare da epigrafe al romanzo come forse all’intera opera di Reza: «Non si dice abbastanza la leggerezza che procura l’assenza di eredità».
Leggerezza terribile
Non tutte le forma di leggerezza sono uguali. La leggerezza orchestrata da Reza, ad esempio, è terribile. La leggerezza di Reza è quella della vacuità, dell’assenza di fondamenti e radici, leggerezza che non è levità né frivolezza, ma vertiginosa inconsistenza. Da grande autrice qual è ormai in modo indiscutibile, Reza sembra aver raccolto da Milan Kundera un preciso compito storico letterario: far suonare il vuoto.
Quel vuoto che, come Leopardi diceva della noia, stipa pensieri, relazioni, desideri e affetti; un vuoto che riempie gli interstizi le cose e non fa respirare. Quella di Reza è la prosa dell’impotenza, della frustrazione, del non-essere-all’altezza come spirito del tempo.
La prosa di una fondamentale, insuperabile immaturità: storie di uomini fragili e puerili, perennemente inadatti alla vita: «So bene», scrive Jean, «che Serge e Nana appartengono da tempo all’umanità matura, come si presume che vi appartenga io stesso. Ma è una percezione superficiale».
La maturità è tutto, scrive Shakespeare nel Re Lear (e la stessa frase veniva ripresa da Cesare Pavese nell’esergo di La luna e i falò). La maturità è impossibile, dice oggi Yasmina Reza: quella di Serge è una generazione di adulti bloccati nell’infanzia, goffi, autistici, sconfitti.
Serge aiuta la figlia a cercarsi un monolocale, immaginando però che sarà lui, un giorno, ad andarci a morire: «Di tanto in tanto uno di noi deve ricordare a Serge che il monolocale non è una pre-cripta fatta per ospitare lui. Lo sa. Ma non capisce sua figlia, non capisce le sue scelte. È forse in grado di entrare nella logica di qualcun altro?».
Quella di Reza è una conversazione infinita di figli eterni, sospesi in un purgatorio che non ha però niente di nobile: un limbo che ha la forma di un funebre vaudeville, che solo una formidabile chirurgia stilistica riesce a rendere comico.
Come scriveva Italo Calvino proprio di Gustave Flaubert: «Quando tocca la sua punta massima di fedeltà ai dati dell’esperienza, il senso che ne risulta è quello della vanità del tutto. Dopo aver accumulato minuziosi particolari e costruito un quadro di perfetta verità, ci batte sopra le nocche e mostra che sotto c’è il vuoto, che tutto quel che succede non significa niente. Vedi scorrere la vita privata dei personaggi o quella pubblica della Francia, finché non senti disfarti tutto sotto le dita come cenere».
In Serge tutto è terribile, e tutto è cretino – tutto è terribile perché è cretino, e tutto è cretino perché è terribile; ciò che rende drammatico il nostro mondo è il suo essere così volgarmente insulso. Il ridicolo che Reza mette in scena non è quello della commedia ma quello, molto più acido – e forse anche più tragico – della farsa.
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