A Brognaturo, piccolo borgo in provincia di Vibo Valentia, Vincenzo, detto Cenzu, continua l’arte della famiglia Grenci intagliando le sue pipe. «Pochi come lui sanno raccontare storie e custodire memorie. Lo definirei un grande restante», dice Vito Teti, l’antropologo che per Einaudi ha appunto pubblicato un saggio dal titolo La restanza, su quel «diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi»
Qui le pipe parlano, scrivono, ascoltano. Le venature rossastre della radice d’erica raccontano storie di boschi, di montagne, di donne e di uomini. Di occhi sapienti che hanno scovato e scelto radiche pure quando faceva freddissimo, di mani congelate che le hanno tagliate mentre pentoloni neri colmi delle carni dei maiali ammazzati all’antica, si chiamano quadare, bollivano sul tre piedi nei cortili delle case di Brognaturo.
Ci abitano seicento persone. Uscendo dall’autostrada del Mediterraneo, a metà della Calabria, il borgo appare all’improvviso dopo aver attraversato filari di pioppi bianchi, immobili come soldati nella neve, e gallerie di alberi quasi a toccare la statale, da pagina di Tolkien. Brognaturo è a quattro chilometri da Serra San Bruno, con la sua Certosa che ha chiuso il portone dietro al mondo e, lì dentro, tutti i suoi misteri.
Il fisico Ettore Maiorana, l’aviatore americano che sganciò l’atomica su Hiroshima, l’economista Federico Caffè? Certamente, invece, è scritta una storia ormai lunga un secolo, e vera, di fumi e di fumatori, di scovolini e di tabacchi schiacciati nelle pipe della famiglia Grenci. Lo sciamano è Vincenzo, detto Cenzu, settantacinque anni. Vive con un pappagallo di venti, un Ara ararauna, le piume luminose blu sulla testa e sulle ali, una lunghissima coda. Si chiama Enrico.
Urla.«È molto geloso. Vive sulla mia spalla, difende il territorio», sorride, Cenzu. Il pennuto gli bacia il baffo, sfila col becco il cappello. Parla. Lo chiama papà, anche Cenzu, fa l’elenco di tutti i suoi figli: Andrea, Sofia, Erica, Anita. Pure della sua compagna, Carmela. Il mastro è un tutt’uno col grembiule di cuoio che si fece suo padre, Domenico, caposcuola di questa grande bellezza.
Il caposcuola Domenico
Nel 1960 Mimmo emigrò nel Wisconsin, a Milwaukee, per raggiungere il suo, di padre. Non lo vedeva da quarant’anni. «Mio nonno se ne era andato a fare l’operaio in America a ottobre del 1920, quando papà aveva appena sei mesi», racconta Cenzu, accendendo la pipa. Era uno tosto, e bravo, Domenico. Nelle sue mani aveva forza e poesia.
«Provò a spezzarsele, mettendole fuori dal finestrino di un treno, al gelo, come fecero altri suoi commilitoni per farsi mandare un po’ a casa. Ma non ci fu nulla da fare, erano sempre calde, forti», ricorda, commosso, parlando dei diciotto mesi in Russia di suo padre appena ventenne durante la guerra. Domenico faceva il falegname, ma era pure un finissimo scultore del legno.
A Milwakee le cose non andavano, decise di trasferirsi a Chicago. Una mattina passò davanti a un grande negozio di articoli per fumatori, c’erano in vetrina pipe sul cui fornello erano disegnati volti. Con dolce sfacciataggine chiese di essere messo alla prova: «Farò io se volete questi ritratti, e anche meglio». Lasciò di stucco tutti, fu assunto. Fecero per lui un laboratorio che affacciava proprio sul marciapiede, la gente si fermava a gruppetti per vederlo scolpire sulle pipe.
Era il 1962, partì tutto da qui. «Io e mia madre Caterina prendevamo le placchette in un paese qui vicino, le spedivamo a Chicago. Mio padre costruì e scolpì centinaia di migliaia di quei gioielli. Fu come un lutto, lì, quando decise che era venuto il tempo di tornarsene in Calabria», ricorda Cenzu osservando quella fotografia che sta appesa un po’ storta.
Pertini e Bearzot
Ci sono Domenico e Sandro Pertini. Il presidente partigiano era innamorato delle Grenci. Anche, tra i tanti, Enzo Bearzot. In una storica istantanea Pertini e il ct del Mundial spagnolo confrontano sul campo le rispettive pipe. Cenzu spiega, candido, che quella dell’ex mister della nazionale italiana è, sì, una Grenci, ma che quella dell’ex capo dello stato è una Peterson. La contraddistingue la vera d’argento tra bocchino e cannuccia.
Dal Quirinale però tante volte il presidente telefonò all’amico Mimmo, cavaliere del lavoro, precursore di questi capolavori fumanti, tra le pipe più apprezzate al mondo, per averne delle altre. Quando Arnaldo César Coelho, l’arbitro della finale Italia-Germania di Spagna ’82, prese il pallone decretando il trionfo azzurro, Pertini alzò le braccia con in mano la sua pipa calabrese delle Serre. «Ho detto a Bearzot di bruciare, come faccio io, amarezze e delusioni dentro a questo fornello, è il segreto per vincere sempre», disse Pertini allo stadio Bernabeu, circondato dai dirigenti della nazionale e dallo stesso cittì.
Quando poi sul volo di ritorno in Italia, durante il leggendario scopone con Causio e Zoff, prese il cazziatone dal presidente – «ha giocato male, lo faceva lui il sette!» – Bearzot aveva in mano una pipa di Brognaturo. L’officina Grenci è un mondo apparentemente sottosopra, un caos lieve dentro cui il maestro nonostante l’aspetto da rude cowboy svolazza lieve, tagliando, tambureggiando come un picchio sulla corteccia. Caldaie per la bollitura del legno, lunghi scaffali dove l’erica – tagliata a blocchetti, le famose placchette, quelle da cui verrà fuori una pipa – stagiona anche venti, trent’anni, “secoli”; e aspiratori, rulli, carta vetrata, trapani, torni, spazzole, sgorbie per intagliare, mazze, punte, frese, una sega a nastro ultracentenaria, profumi di polveri che noi di città abbiamo forse perso per sempre. E il canto di Enrico. Un immaginario poetico, un set da Tim Burton. Lo sciamano Vincenzo è un puro come uno di quei personaggi del regista americano, alla Edward mani di forbice, senza infiorettature, senza tergiversi sulla sua arte.
Cenzu e la sua vita favolosa
Al mattino munge le sue due capre, Timida e Coccola, fa uscire i cavalli, Jamal e Joy, quindi una lucidatina alla Citroen bianca d’epoca ancora funzionante. Cenzu e la sua vita favolosa. In quarta elementare era Tarzan: «Salivo sui castagni passando da un albero all’altro, facendo abbassare la cima, riuscendo a saltare su quello che veniva appresso. Se mi sono mai ammazzato dice? Scendevo dall’altra parte del castagneto, qualche graffio. Anche i miei figli. Sembravano scimmie, si arrampicavano ovunque, ma mai ho dovuto dire nulla, era come se fossero nati per fare acrobazie».
Le radiche di Erica Arborea le “caccia” da solo. In Calabria sono scomparsi i cioccaioli, si chiamavano così quelli che andavano in cerca di radici: «La femmina ha venature bellissime, e io vado alla ricerca della bellezza». È un outcast, Cenzu. Ovvero non aderente alle imposizioni del sistema. Specie di questo tempo superficiale, tirannico, anaffettivo («non venderei una pipa a Meloni nemmeno se mi pagasse oro», assicura). «Pochi come lui sanno raccontare storie e custodire memorie. Lo definirei un grande restante», ci dice Vito Teti, l’antropologo che per Einaudi ha appunto pubblicato un saggio dal titolo La restanza, su quel «diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi».
Abita a San Nicola da Crissa, è a due passi da qui. Anch’egli prezioso restante, compagno di scuola del signore delle pipe, «vero resistente – commenta il professore – con quella sua restanza creativa, con la sua vocazione a fare e a cambiare il mondo». Lo fa con indosso ‘u faddali, la parannanza di cuoio che era di Domenico, l’amico di pipa di Pertini e Bearzot. Un giorno, secondo il programma Grenci, passerà ad Anita. Ventiquattro anni, studia economia. È la futura custode del genio di Cenzu, è la piccola grande resistente di questa officina soprannaturale.
© Riproduzione riservata