«Il femminile regolare di capo, nel significato di persona che esercita un comando o dirige un’impresa, è capa, e così si può chiamare una donna che svolge questa funzione; tuttavia, poiché questa forma ha spesso un uso scherzoso, molti preferiscono chiamare anche una donna capo, al maschile».

Questa notazione del Dizionario Garzanti della lingua italiana apre sulla spinosa questione del femminile per le professioni o le cariche, e dove c’è una questione spinosa Francesco Pacifico si butta prendendo di petto i temi più delicati. In questo è aiutato dalla convinzione (o forse è un condizionamento) che le proprie nevrosi siano strettamente connesse, o addirittura dipendano, dal contesto sociale in cui è vissuto.

Come romanziere, questo gli dà il vantaggio di tenere insieme l’intimità personale e l’attualità storica nel punto in cui da cronaca si fa mutazione di lungo periodo. Mentre una lunga tradizione otto-novecentesca ha visto la congiunzione individuo-società soprattutto a partire dagli ultimi, dai più svantaggiati, Pacifico ha l’ossessione di decostruire i propri privilegi: la ricchezza borghese della famiglia, la prevaricazione istintiva e involontaria del maschio bianco cisgender.

Evitando che il senso di colpa dei suoi protagonisti, più o meno identificati con sé stesso, diventi un’esibizione plateale (come negli ormai troppi maschi-in-crisi della letteratura recente) e quindi di nuovo una centralità maschile capovolta, un privilegio in controluce.

Uomo morde cane

Nel suo ultimo romanzo Il capo, Mondadori, l’ambiguità è giocata e goduta fino al limite: nelle prime pagine si parla di quanto sia attraente e magico “comandare le persone”, si elencano alcuni casi di molestatori perbene che lui ha conosciuto personalmente.

Siamo in area me too e politicamente corretto, la ragazza molestata è lesbica, a un certo punto si parla di un “amante” (maschio) del capo; a parte due pronomi-spia a p.31 (in una situazione volutamente intricata di telefonate che si sovrappongono), bisogna aspettare p.49 per capire che in realtà il “capo” è una donna – quindi una donna che abusa e molesta, il che rende il giudizio su di lei meno scontato e stereotipo. L’uomo che morde il cane e non viceversa.

La voglia di imbrogliare le piste (49 pagine senza un aggettivo qualificativo che possa rivelare il sesso, un’abbagliante precisione dei dettagli per nascondere il tiro mancino) sorvola come un ghignetto ironico gli altri scrupoli di correttezza (chiamare «Bozen» la città di Bolzano per «non negare l’eredità culturale austriaca»). La vicenda si svolge in Sud Tirolo, in un resort che ha caratteri da film horror alla Shining; la protagonista vi si trova isolata con un Ragioniere amante succube della capa, mentre la capa stessa tira i fili da remoto.

La sfuggente e fantomatica Fondazione per cui lavorano è una specie di Spectre di sinistra, dove si parla di Pasolini e Morante ma si manipolano i deboli come nei Buoni di Luca Rastello. Tutto ha un’aria squallida, la molestia sessuale in fondo non è all’altezza; c’è un’infatuazione della protagonista, Gaia, per la capa ma le perversioni aziendali girano a vuoto; giochi di ruolo, scambismo - tutto alla fine si riduce, quando la capa finalmente arriva, a una misera richiesta di una cosa-a-tre (o threesome, per nobilitarla in inglese).

Si aggiungono il Covid, le preoccupazioni per i ghiacciai che si sciolgono a gennaio, le consuete autoflagellazioni dell’autore perché dal punto di vista di classe lui è più vicino ai molestatori che alla molestata. Come se a Pacifico premesse non apparire in ritardo su nessun appuntamento dell’intersezionalità progressista.

Perturbante

O così sarebbe se Pacifico non fosse uno scrittore vero, come invece è. La forza dello stile lo porta altrove, sia sul piano tematico che su quello dell’espressione. Nel suo resort c’è un tiki bar polinesiano in mezzo alle montagne, niente è al posto in cui le convenzioni lo vorrebbero; tutto è in mutazione sotto «l’occhio invisibile della società umana, l’occhio maniacale che vaga ramingo nell’universo senza una palpebra sotto cui riposare». Durante i lavori antropologici in corso anche il sesso si trasvaluta in una richiesta universale: «La cosa nuda messa lì in eterno per alludere alla verità senza poterla dire».

Al di là della trovata e della provocazione, oltre i giochi alla moda sul gender, si respira dovunque nel libro un’atmosfera perturbante; la sensazione perturbante, sostiene Freud, la proviamo quando qualcosa di familiare ci si presenta all’improvviso travestito da incomprensibile ed estraneo. Sotto le innovazioni abbaglianti della contemporaneità, è il vecchio caro dolore creaturale quello che si manifesta ancora e sempre.

L’autore iscritto nel testo si chiama Francesco come l’autore empirico, e fin dall’inizio ci racconta che la moglie se n’è andata; alla fine, nella zona paratestuale dei ringraziamenti, dopo il nome vero della moglie è scritto semplicemente “torna”. Sul piano narrativo, l’autore incontra la vittima delle molestie la sera stessa del giorno in cui la moglie se n’è andata.

Affinità con i cattivi

Perché la cosa più interessante del testo è quella che abbiamo tenuta per ultima: la vicenda principale del romanzo è una storia raccontata – è la vittima stessa della molestia che vuole raccontarla all’autore perché possa, forse, ricavarne un romanzo. Tra loro ci sono stati alcuni incontri (con ulteriori scrupoli a non sessualizzarli), è entrato in funzione un registratore; ma non mancano acrobazie narratologiche, per esempio Gaia che racconta che il Ragioniere le ha raccontato che la capa gli ha raccontato eccetera.

La verità dei fatti svapora in una serie di successive versioni, in cui entra anche la fidanzata di Gaia che viene chiamata Calla (chissà se c’è un riferimento a Sophie Calle, la fotografa francese che inestricabilmente mescola finzione a autobiografia).

Verso il finale i nodi si stringono; Pacifico è cresciuto come scrittore, i suoi libri ora hanno dentro (magari confusamente) più cose e più livelli. L’autore si identifica col Ragioniere, anche lui è masochista, anche lui gode a farsi umiliare; quella che ha raccontato, ammette, è «una storia che potevo scrivere a causa della mia affinità con i cattivi».

Nelle ultime pagine c’è un accostamento esplicito tra la vicenda di Gaia con la sua fidanzata e quella dell’autore con la moglie; e se il gioco di specchi che Pacifico ha allestito non fosse altro che un escamotage dell’autobiografia? Se tutto l’impianto di una donna che racconta a un uomo la storia di un uomo dominato da una donna non fosse che un tentativo di capire l’abbandono da parte della moglie? O forse l’uomo che, sia pure mettendosi interamente in gioco, raduna i fili e si assume la responsabilità del racconto è lui che si autoafferma, ancora una volta e nonostante tutto, come maschio alfa? Non si esce dalla trappola.        


Il capo (Mondadori 2023, pp. 168, euro 18,50) è l’ultimo romanzo di Francesco Pacifico

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