Il 25 luglio 1943 aveva messo fine al regime totalitario italiano e aveva sorpreso molti. Ma fu la formula «la guerra continua» a creare ambiguità e incertezze che si riverberarono sui successivi 45 giorni, fino al drammatico 8 settembre. Sorprendente fu pure che un numero incalcolabile di italiane e italiani scese in piazza, all’indomani del proclama, erano attoniti, ma festanti
Il 25 luglio 1943 aveva messo fine al regime totalitario italiano e aveva sorpreso molti. Ma, soprattutto, il crollo del fascismo – reso possibile dall’operato di tanti attori e non certo solo dalle trame di un piccolo gruppo di vertice di frondisti – fu segnato da molte ambiguità che si riverberarono sui successivi 45 giorni, sino al drammatico 8 settembre.
Sorprese – per chi aveva sopravvalutato la forza del fascismo e sottovalutato quella dell’antifascismo, o quanto meno la dimensione dello scollamento già avvenuto fra regime e italiani – che dopo 23 anni di governo fascista, alla notizia dell’arresto del suo capo, nonostante i milioni di italiani formalmente iscritti al partito e le centinaia di migliaia inquadrati nella milizia, non vi fossero significative reazioni del partito o del suo temuto braccio armato. Non meno sorprendente fu pure che un numero incalcolabile di italiane e italiani scese in piazza, all’indomani del proclama con cui si rendeva noto che a sostituire il duce c’era adesso un governo voluto dal re e guidato dal generale Pietro Badoglio, forse attoniti, ma festanti. La gioia per il crollo del regime si intrecciò per loro con l’illusione della fine della guerra. Fra i manifestanti i più arditi si lanciarono a scalpellare e svellere i simboli del regime, applauditi dalle folle. Non vi furono significative ritorsioni personali contro leader o responsabili anche locali del fascismo. Fu una giornata di manifesta gioia nazionale.
Non mancarono gli interrogativi, ovviamente. E questi furono presto numerosi, viste le modalità del crollo. Ma furono lasciati ai giorni successivi.
Le reazioni
A livello internazionale, alla notizia dell’arresto di Mussolini, dalla Germania Hitler ordinò l’invio di altre truppe tedesche. Si trattava solo dell’accelerazione di un piano già stabilito, dal nome significativo (Alarich), predisposto e avviato da mesi. Poiché il governo Badoglio era nato con l’equivoco de «la guerra continua», Berlino non poteva procedere subito all’instaurazione di un’autorità di governo ad essa fedele, come aveva fatto in tutta l’Europa occupata: ma cominciò a pensarci. Parallelamente, e all’opposto, le Nazioni unite (Regno Unito, Stati Uniti d’America, Francia libera, con l’alleanza con l’Unione sovietica) rimasero deluse che il cambio di governo non fosse stato accompagnato da una dichiarazione di resa. Per un esplicito cambio di alleanze avrebbero dovuto aver luogo trattative segrete che a quella data non erano state ancora avviate da parte italiana: anche qui una ulteriore responsabilità della corona e degli ambienti ad essa vicini.
Importanti furono soprattutto le reazioni a livello nazionale. Badoglio non fece liberare immediatamente i detenuti politici perseguitati dal fascismo. Eppure, gli antifascisti presero subito a contattarsi. Un “comitato delle opposizioni” o “comitato antifascista”, con i rappresentanti dei maggiori partiti politici già clandestini, prese a riunirsi. I timori di turbative dell’ordine pubblico nel re, in Badoglio e nei nuovi governanti portarono a bandire manifestazioni di piazza. Furono emanati ordini draconiani in tal senso, la cui messa in atto produsse decine e decine di morti fra luglio e agosto. In ogni caso gli italiani iniziarono a respirare un po’ di quella libertà che era stata loro negata per un ventennio. La stampa continuò a essere fortemente controllata, ma non nelle modalità dei tempi del regime e dei suoi «ordini alla stampa», cosicché un primissimo per quanto acerbo dibattito pubblico iniziò a percepirsi.
Fu la chiusura alla presenza degli antifascisti nel governo a riassumere quei primi giorni di postfascismo: il regime totalitario era finito, ma in forma ambigua. Proprio l’ambiguità era la chiave complessiva della forma storica assunta alla fine dell’uscita dal fascismo, realizzata dalla monarchia e dai militari, che ambedue con il fascismo avevano a lungo cooperato. Vennero soppresse la milizia (formalmente incorporata nell’esercito, di fatto decapitata) e la Camera dei fasci e delle corporazioni. Ma i pieni poteri rimasero in capo alle autorità militari e si avviò una timidissima e parziale defascistizzazione: ci si “dimenticò” di abolire la legislazione razziale.
Forse l’ambiguità maggiore stette nella formula «la guerra continua». Segretamente, il governo Badoglio intavolò trattative con le Nazioni unite per un armistizio, per un cambio di alleanza, persino per una cobelligeranza. Ma non poteva dirlo apertamente visti la presenza e il continuo afflusso di truppe tedesche nella penisola, formalmente in sostegno dell’«alleato italiano». In coincidenza con il cambio di alleanza, la sorte del più di un milione di soldati italiani operanti all’estero sarebbe stata difficile in ogni caso, forse era segnata: ma se accompagnato da opportuni e chiari ordini, almeno nei territori dove essi erano in maggioranza rispetto a quelli tedeschi e da dove fosse stato possibile organizzare un rimpatrio, qualcosa poteva essere tentato. Per quelli presenti in patria, invece, oltre che per tutti gli italiani, un eventuale cambio di alleanze avrebbe potuto essere certamente meglio gestito. L’ambiguità de «la guerra continua» fece sì invece che, nei quarantacinque giorni successivi al 25 luglio, praticamente nulla fosse detto, e poco fosse organizzato. Solo a fine agosto una circolare fu diramata ai massimi comandi dell’esercito, e non sempre divulgata ai comandi subordinati.
Di quanto poi sarebbe accaduto l’8 settembre, molto era già iscritto nelle modalità del cambio di regime del 25 luglio. Il trasferimento affrettato del re e di parti del Comando supremo da Roma al Sud, «la fuga», motivata dalla volontà di garantire la continuità istituzionale, caratterizzata da una troppo scarsa attenzione alla elaborazione e alla diramazione di appropriati sistemi di ordini alle truppe operanti all’estero e in patria, soltanto completò una uscita dal fascismo che in buona parte era già stata pregiudicata il 25 luglio.
Forse, però, la conseguenza più duratura della ambigua modalità italiana di crollo di un regime totalitario fu quella indotta nella mentalità degli italiani. Uscire da vent’anni di fascismo senza dirlo a voce alta e chiara e all’insegna de «la guerra continua» è facilmente comprensibile alla luce dei timori della corona, di Badoglio e dei circoli più moderati dell’antifascismo, nonché della complessiva sua debolezza organizzativa al 25 luglio. Per ciò che attiene alle sue conseguenze, invece, quel silenzio e quell’ambiguità furono all’origine di un processo assai più complesso e duraturo per via del quale gli italiani non furono posti in condizione di ripensare sino in fondo alle proprie responsabilità storiche. Il «non fare i conti con il proprio passato» non sarebbe iniziato, a ben vedere, dopo il 25 aprile 1945 bensì proprio il 25 luglio 1943 e avrebbe ispirato i 45 giorni successivi.
Per sradicare davvero il fascismo dall’Italia, ci sarebbero voluti infatti altri due anni di guerra, di impegno delle Nazioni unite antifasciste e di azione alla fine unitaria della Resistenza italiana.
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