In Champions si sfidano due squadre-nazione, due città simili nella rivendicazione di diversità rispetto al resto del paese. Aurelio De Laurentiis e Joan Laporta sono i loro presidenti con una radice narcisistica sproporzionata, stessa pianta con frutti diversi. Sono cannibali, ossessivi, contraddittori, carismatici e creativi, sguazzano tra cadute e risalite, gaffe e azzardi, invettive e sogni. Credono che tutto abbia un seguito e se non ce l’ha, lo inventano.
Aurelio De Laurentiis e Joan Laporta sono gli iper-presidenti del Napoli e del Barcellona. Il secondo ha vinto tanto, il primo vorrebbe vincere il doppio. La differenza è che De Laurentiis è andato a scuola da suo zio Dino, grande produttore cinematografico, e Laporta da Johan Cruyff, grande regista. Per questo il Napoli ha i conti in regola e il Barça le Champions in bacheca.
I due hanno una radice narcisistica sproporzionata, stessa pianta con frutti diversi. Sono cannibali, ossessivi, contraddittori, carismatici e creativi, sguazzano tra conferenze e successi, cadute e risalite, gaffe e azzardi, invettive e sogni, e credono che tutto abbia un seguito e se non ce l’ha, lo inventano. Hanno squadre-nazioni, con la differenza che Barcellona ha provato davvero a staccarsi dalla Spagna, auto-isolandosi nella propria ricchezza con l’ideologia dell’assolutismo catalano – Laporta ci crede fermamente e aspetta l’amnistia per gli indipendentisti che non fecero l’impresa –, mentre Napoli rivendica la sua diversità dall’Italia con la persecuzione e il vittimismo che trovano sempre un gruppo pronto a darle ragione in una curva di uno stadio come in una sala stampa di festival canoro.
Ma mentre Laporta ha persino fondato un partito di supporto alla causa catalana – Partit per la Independència –, divenendo anche deputato del Parlamento della Catalogna e consigliere comunale di Barcellona; De Laurentiis appoggia sindaci e presidenti di regione più o meno velatamente e cita solo l’ex Primo ministro del Regno Unito: Margaret Thatcher. Laporta è un avvocato con proiezioni presidenziali di ogni tipo e si candiderebbe sempre: dal suo condominio alla Casa Bianca, non a caso quando apparve come oppositore dello storico presidente José Luis Núñez fu paragonato a J. F. Kennedy, anche se aveva come slogan: “Primer, el Barça”, la prima volta (dal 2003 al 2010), ora che è stato rieletto (2021) ha detto la frase kennediana giusta: «Chiedetevi cosa potete fare per il Barça e non cosa può fare il Barça per voi».
I guai
De Laurentiis non cita Kennedy ma solo sé stesso, e questa centralità è uno dei problemi del Napoli. Ne hanno molti entrambi e tutti hanno a che fare con lo stile, l’anima (calcistica) e lo spazio. Laporta ha condiviso un tratto di campo e bacheca Champions con Guardiola e vive nella costante ricerca di un allenatore che possa re-incarnarne i principi, il linguaggio, il gioco e le vittorie, l’ultimo è stato Xavi che ha vinto la Liga nella scorsa stagione e poi ha commesso l’errore di rimanere, ora è dimissionario e non esonerato «solo perché è Xavi», ha detto Laporta, cioè una gloria del club. Ma la crisi della squadra è evidente e profonda anche se è terza, e nell’ultima partita col Celta Vigo di Rafa Benitez ha vinto al 93’ su rigore, tirato due volte da Lewandoski e segnato al secondo tentativo.
Il Barça vive una crisi di identità – un paradosso per una squadra che ha fondato tutto sull’identità – con un direttore sportivo portoghese, Deco, che sembra minarla di continuo con scelte lontane dalla storia del club e dichiarazioni che tradiscono il solco Cruyff. Infine, c’è il problema dello spazio, il Camp Nou è in ristrutturazione e gioca in un altro campo, il Lluís Companys di Montjuic, che è come avere un’altra pelle. Poi ci sono una marea di sottoproblemi come alcuni scandali arbitrali e politici che si addensano all’orizzonte: dal “caso Negreira” al lavoro nero al Camp Nou e un passaggio di sponsor da Nike a Puma.
Gli allenatori controfigure
Anche De Laurentiis cerca sempre la copia dell’allenatore col quale è stato felice prima di logorarlo: da Benitez a Spalletti è tutto un inseguimento del modello precedente. Sarri doveva rincorrere Benitez, Ancelotti doveva scavalcare Sarri ed essere inseguito da Gattuso, e Spalletti è il Guardiola perduto e da ricercare: rimpiazzato malissimo da Garcia e annullato con Mazzarri che aveva il doppio compito di rifare sia Spalletti che il sé stesso di dieci anni prima. E ora con Francesco Calzona si è scelto uno che sta tra Sarri e Spalletti, una mediazione nella ricerca dell’identità.
Il Napoli è messo peggio in campionato, è nono, e ancora non ha subito il cambio di spazio anche se De Laurentiis ha annunciato che vuole un nuovo stadio o la riprogettazione del “Maradona”. Ha perso uno dei migliori direttori sportivi del calcio italiano, Cristiano Giuntoli, e sta per perdere anche il suo attaccante, Victor Osimhen, con una sufficienza bambina, mostrando una grande incapacità nella gestione degli addii.
Ma Laporta e De Laurentiis restano due ottimisti, il primo è convinto che stanno uscendo dal tunnel del deficit economico e che troveranno il nuovo Guardiola, c’è da dire che era anche convinto che Messi rimanesse al Barça dimezzandosi lo stipendio – cosa che ha fatto come presidente –, e il secondo è convinto di trovare il nuovo Spalletti e di vincere anche la Champions, sapesse la storia di Roberto Di Matteo col Chelsea la cucirebbe subito su Calzona, ma la grande differenza con Laporta è che gli è mancato un Cruyff e una scuola di pensiero calcistico.
Ha avuto Diego Maradona che è una religione, ma non ha saputo farsi tramite, ha provato a usarlo e male – proprio in Spagna – come testimonial, senza acquisirne il dogma come ha fatto la città. Il Barça è un mondo polisportivo, il Napoli un canale monotematico. I catalani hanno slancio, organizzazione e tituli; i napoletani tanta vivacità e virtuosità economica. È nell’azzardo che Laporta scavalca Dela, e quando cade dice che sta saltando un nuovo ostacolo.
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