Chiamare “Domani” un giornale è un azzardo, una scommessa sull’acutezza dei collaboratori. Di solito, più prudentemente, si insiste sull’oggi (Usa Today, Hoy, Heute Zeitung). Nessuno osa attribuirsi capacità profetiche ma ci si può accontentare dell’idea che il domani non è altro che l’oggi osservato con più attenzione.
Nel suo ultimo romanzo, Umberto Eco racconta di un giornale che si chiama Domani e non esce mai, produce soltanto “numeri zero” di prova la cui missione è spaventare il salotto buono della politica e della finanza, mandando il messaggio «vedete cosa potrebbe succedere se pubblicassi davvero un giornale così».
C’è però un precedente più benaugurante: si chiamava Domani una coraggiosa rivista pubblicata in italiano a Buenos Aires tra il 1943 e il 1944; rivista antifascista di rifugiati ed emigrati italiani, che ospitò scrittori importanti come Ernesto Sabato e Stefan Zweig. L’aveva fondata Paolo Vita Finzi, diplomatico e scrittore, costretto a riparare in Argentina a causa delle leggi razziali
«Domani, e poi domani, e poi domani/ il tempo striscia, un giorno dopo l’altro/ a passettini, fino all’ultima sillaba/ del discorso assegnato»: Macbeth, nel suo famoso monologo, assegna all’avverbio di tempo il compito di scandire la marcia inesorabile della morte.
«Domani è un altro giorno», dice Scarlett ‘O Hara alla fine di Via col vento, rivendicando i diritti della leggerezza. “Domani” è avverbio ambiguo, come sempre accade quando il tempo è affidato alla percezione e alla cura degli uomini. Ma nel linguaggio comune ‘domani’ è la parola del progetto, del pronostico e in fin dei conti della speranza, magari vana (“sì, eh, domani…”). Chi pensa che domani sarà peggio di oggi è tacciato di disfattismo o trattato da renitente ai progressi della Storia.
Chiamare “Domani” un giornale è un azzardo, una scommessa sull’acutezza dei collaboratori. Di solito, più prudentemente, si insiste sull’oggi (Usa Today, Hoy, Heute Zeitung) o, per sottolineare la freschezza delle notizie, sulle ore mattutine (La mañana, Morning Star, Il Mattino) o magari serali per le edizioni pomeridiane (Evening Post, Le soir, Corriere della sera); pochi sono i ‘domani’ (c’è un tomorrow-news digitale e, in Russia, l’ultranazionalista Zavtra).
Nessuno osa attribuirsi capacità profetiche ma ci si può accontentare dell’idea che insomma il domani non è altro che l’oggi osservato con più attenzione. Ci si aspetta che un giornale con questo nome si interessi di «quello che potrebbe avvenire domani, con articoli di approfondimento, supplementi di indagine, anticipazioni inattese».
Qui cominciano i guai: perché la frase che ho messo tra virgolette è pronunciata dal direttore di un giornale fittizio in Numero zero, l’ultimo brutto (ma intelligente) romanzo di Umberto Eco. E il giornale fittizio si chiama, guarda un po’, proprio “Domani”.
Quel Domani è un giornale destinato a non uscire mai, perché il suo vero scopo è ricattatorio: un potente affida a tanti ‘numeri zero’ (retrodatati, per cui il futuro è soltanto un futuro anteriore) la missione di spaventare il salotto buono della politica e della finanza, mandando il messaggio “vedete cosa potrebbe succedere se pubblicassi davvero un giornale così”. Mischiandole a un thriller scombiccherato e a una tiepida storia d’amore, Eco dà lezioni sui meccanismi della cattiva comunicazione: come si mette in piedi una macchina del fango, come si delegittimano gli avversari con insinuazioni e dossieraggi, come si manipola l’opinione pubblica.
Una specie di breviario su quello che un buon giornale non dovrebbe essere, scritto da un’armata Brancaleone di ignari incapaci che quando provano a immaginare un po’ di futuro non ne azzeccano una. Un precedente onomastico da rimuovere, per non dire infausto.
Per fortuna il malaugurio si può scongiurare allargando la (immaginaria) genealogia. Si chiamava Domani una coraggiosa rivista pubblicata in italiano a Buenos Aires tra il 1943 e il 1944; rivista antifascista di rifugiati ed emigrati italiani, che nella sua breve vita ospitò contributi di scrittori importanti come Ernesto Sabato e Stefan Zweig. L’aveva fondata Paolo Vita Finzi, diplomatico e scrittore, costretto a riparare in Argentina a causa delle leggi razziali. In Italia è noto soprattutto per la sua Antologia apocrifa, una deliziosa serie di parodie letterarie che dopo una prima pubblicazione nel 1927 con la modenese Formiggini si accrebbe man mano fino a conoscere la forma definitiva presso Bompiani nel 1978.
Fautore ed editore del libro fu proprio Umberto Eco, che lo ammirava e contribuì a farne un piccolo classico per amatori. Non è escluso che Eco, nell’immaginare il nome del giornale fittizio di Numero zero, si sia ricordato dell’antica gloriosa rivista, divertendosi a rovesciarne le virtù in vizi.
Un’origine infame e una nobile: il nome ritorna neutro, ricordando che l’ambiguità è nemica del giornalismo ma amica della vita e della letteratura.
Si potrebbe perfino pensare a ‘domani’ come a un avverbio di controllo, un luogo di verifica retrospettivo; mi pare fosse Abraham Lincoln che diceva “non puoi sfuggire alle responsabilità di domani evitandole oggi”.
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