Con l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022, il potere politico russo è diventato più attento anche ai simboli politici. Ma inevitabilmente l’arte svela verità e smentisce le false ricostruzioni, come accade nell’opera di Oleg Kulik, accusata di parodia antipatriottica
Nel suo discorso alla nazione dopo l’azione terroristica del 22 marzo al Crocus City Hall di Mosca, Putin si è guardato bene dal nominare parole come islamismo e jihādismo, tantomeno dal citare l’Isis, che ha rivendicato la strage. I motivi che lo hanno portato a questa scelta non sono legati solo alla volontà di attribuire la responsabilità della strage agli ucraini. Circa il quindici per cento della popolazione della federazione Russa è islamica. Questo naturalmente non vuol dire che tutti gli islamici guardino con simpatia all’Isis, ma certamente Putin ha un problema interno di non facile soluzione, che si è mostrato in tutta la sua complessità dopo le rivendicazioni dall’Isis-K, il ramo afghano dell’autoproclamato Stato Islamico.
Tra le azioni terroristiche scolpite nella memoria dei russi vi è quella del 23-26 ottobre 2002 al teatro Dubrovka di Mosca. Un gruppo formato da una quarantina di militanti separatisti ceceni, tra cui diverse vedove di combattenti nella Seconda guerra cecena, tenne per tre giorni in ostaggio circa ottocentocinquanta civili, chiedendo in cambio della loro liberazione il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia. L’epilogo fu tragico: prima di fare irruzione nel teatro, le forze speciali russe immisero all’interno dell’edificio, sfruttando il sistema di ventilazione, un gas che causò la morte di circa centosettanta persone tra terroristi e ostaggi. Le ricostruzioni delle autorità russe, che miravano a far credere che i sequestratori puntassero a un riscatto in denaro, furono smentite da un video intercettato dai mezzi di informazione, nel quale i terroristi dichiararono tra l’altro: «Se moriamo, altri verranno e ci seguiranno. Per liberare la loro nazione i nostri fratelli e le nostre sorelle sono disposti a sacrificare le loro vite secondo il modo di Allah».
La Sacra famiglia
A quel tragico evento Oleg Kulik, artista russo nato a Kiev nel 1961, ha dedicato nel 2004 un’opera iconica dal titolo The Holy Family, lavoro fotografico che ho esposto nel 2011 nella mostra Surreal versus Surrealism all’IVAM di Valencia. La fotografia mostra una giovane donna vestita di nero che indossa scarponi militari. Seduta su una poltrona rossa, ha gli occhi chiusi e la testa reclinata su uno hijab nero. Non è chiaro se sia morta. Tiene in grembo uno zaino imbottito di esplosivo e ha in mano una pistola. Alle sue spalle giganteggia una statua di Boris Yeltsin, primo presidente della Federazione russa. La statua ha l’aspetto di uno dei tanti monumenti abbattuti dopo una rivolta popolare, con la testa fracassata e il corpo lesionato. Il modo in cui la luce disegna le figure e la solennità della scena richiamano la pittura realista sovietica, in cui la guida politica sovrasta sempre tutto e tutti.
In quest’opera Kulik ha riproposto il tema della Sacra famiglia liberandolo dai codici di lettura di un’iconografia millenaria. Nella storia dell’arte, la rappresentazione della Sacra famiglia prevede che l’uomo/padre stia con atteggiamento protettivo alle spalle della donna/madre, che a sua volta protegge il bambino.
Nella versione di Kulik il padre – anche in questo caso alle spalle della madre – è una presenza oppressiva. Unendo iconografia religiosa e iconografia politica, la Sacra famiglia di Kulik diviene estranea all’una e all’altra e denuncia una situazione reale ma assurda che vede la figura della donna portare in grembo la morte anziché la vita. Kulik mostra la donna imprigionata da un potere che, opprimendo tanto lei quanto il suo popolo, la costringe a nuovi doveri. La battaglia per la vita diviene in questo caso la disponibilità della shaheeda (martire) a perdere la propria vita in una lotta doverosa.
La poetica di Kulik
Performer, scultore, fotografo e curatore, Kulik non ha mai rinunciato a realizzare opere dal carattere provocatorio, assumendosi i rischi che platealmente la sua arte comporta. Una sua nota performance ha ispirato una sequenza del film The Square (Palma d'oro al Festival di Cannes 2017, regia di Ruben Östlund) nella quale un artista di nome Oleg irrompe a torso nudo tra gli ospiti di una cena di gala in un museo. Facendo versi e muovendosi come una scimmia esagitata, il performer crea un profondo disagio tra gli invitati. Il riferimento è alla performance del 1996 alla Stockholm at Färgfabriken, nel corso della quale Kulik, legato a un guinzaglio come un cane, arrivò a mordere uno spettatore che aveva ignorato il cartello con su scritto “pericoloso”, che lo stesso artista aveva posto accanto a sé. In questo come in altri casi, Kulik mette in scena provocazioni indirizzate a scardinare la retorica del potere, sia quello politico che quello del sistema dell’arte.
Una biografia della vita e del percorso artistico di Kulik potrebbe essere letta come una pagina di storia della Russia contemporanea. Nell’aprile del 2022, in occasione della fiera Art Moscow, Kulik ha esposto nello stand della Galleria Frolov di Mosca un’installazione scultorea dal titolo Big Mother. La scultura faceva parte di un corpo di opere che portano lo stesso titolo, presentato per la prima volta nel 2018. La scultura raffigura un’enorme donna nuda, molto grassa, in piedi su un’impalcatura di metallo, che solleva una spada nella mano destra mentre sotto di lei figure umane più piccole tirano delle corde legate al suo collo e alle sue braccia, non è chiaro se per erigerla o per tenerla prigioniera.
La reazione del potere
La postura del soggetto ha indotto alcuni militanti pro Cremlino, tra cui lo scrittore Zachar Prilepin, a vedervi una parodia de La Madre Patria chiama! di Yevgeny Vuchetich (anche conosciuta come Statua della Madre Russia), un monumento che dal 1967 commemora i soldati russi che hanno combattuto nella battaglia di Stalingrado del 1942-1943 e che si erge, alta 85 metri, sulla collina di Mamaev Kurgan a Volgograd (ex Stalingrado). Secondo altri, oggetto della presunta parodia sarebbe un monumento simile realizzato a Kiev, la statua della Madre Patria (1981) dedicata allo sforzo bellico dell'Unione Sovietica contro la Germania nazista. Anche questa è una statua imponente, alta 62 metri, 102 metri se si conta anche il piedistallo.
Sulla scia delle proteste di diversi funzionari russi, Alexander Khinshtein, capo della commissione sull’Informazione del parlamento russo, ha esortato l'ufficio del procuratore generale ad aprire un'indagine affinché fossero presi provvedimenti contro l’artista, successivamente accusato di “riabilitazione del nazismo”. Khinshtein ha scritto sul suo canale Telegram che «coloro che hanno commesso questo atto atroce devono essere ritenuti responsabili nella misura massima prevista dalla legge» augurandosi in un post successivo «che il signor Kulik perda l'opportunità di esporre la sua “arte” in mostre russe e si dedichi alla decorazione delle istituzioni del sistema penitenziario». Khinshtein ha inoltre dichiarato di aver sollecitato l'ufficio del procuratore generale a indagare sull’artista anche per un dipinto, sempre esposto all’Art Moscow, che a suo avviso costituisce una parodia di un manifesto sovietico. Kulik è stato in seguito convocato per un interrogatorio dal Comitato Investigativo, l'equivalente russo dell'FBI.
La Venere di Willendorf
Lo scoppio delle polemiche sul presunto messaggio antipatriottico di Big Mother si è verificato solo due mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha portato a una lettura dell’opera in chiave politica. Secondo l’artista, invece, la parte superiore dell’istallazione fa riferimento alla Venere di Willendorf, scultura di quasi 30.000 anni che rappresenta la fertilità femminile. In risposta alle accuse ricevute, Kulik ha negato che l’opera avesse valenze politiche, spiegando che è nata dall’elaborazione del trauma per la dolorosa separazione dalla moglie. Si tratterebbe dunque del risultato di «un tentativo di introspezione e, in un certo senso, di terapia». Da parte sua, Vladimir Frolov, gallerista di Kulik, ha spiegato che «la scultura simboleggia il conflitto tra un uomo e una donna».
La parentela dell’opera di Kulik con la Venere di Willendorf anziché con i monumenti di Volgograd e Kiev è stata rimarcata anche da Anna Tolstova in un articolo dal titolo Big Father (Kommersant Weekend, 29 Luglio 2022). Tolstova ha fatto notare che, se fosse stata esposta a Düsseldorf, Chicago o Melbourne e interpretata in modo imparziale, Big Mother avrebbe offeso solo le femministe. La Venere di Willendorf è infatti l’immagine più famosa al mondo che richiama miti connessi al matriarcato primitivo. Tolstova ha aggiunto che «solo in Russia, dove il femminismo è diventato uno dei più pericolosi crimini di pensiero [...] i maschi bianchi eterosessuali di successo hanno potuto esporre opere d'arte di questo tipo senza pensare ai danni alla loro reputazione».
Kulik è tra gli artisti che hanno espressamente realizzato un lavoro per lo speciale sull’Ucraina pubblicato da Domani il 6 marzo 2022, una fotografia ritoccata con pittura nella quale un uomo che sventola una bandiera ucraina è braccato da due cani.
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