Il 7 marzo arriva nelle sale Un altro Ferragosto, un unico affresco con il suo Ferie d’agosto del 1996. Per tornare a Ventotene, stessa spiaggia stesso mare, il regista ha aspettato invece di avere qualcosa di compiuto da dire
Se fossi un distributore farei bancarotta in tre mesi. Se fossi 01 Distribution, che il 7 marzo porta in sala Un altro Ferragosto, programmerei maratone congiunte con Ferie d’agosto, duecentotrenta minuti di cinema in sequenza, senza intervalli. Una iattura per il box office, ma ne varrebbe la pena.
Fra l’Italia berlusconiana fotografata da un Paolo Virzì allora trentaduenne (Ferie d’agosto è stato girato nel 1995 ed è uscito nel 1996 ndr) e quella di oggi corrono quasi trent’anni, ma è un unico affresco. Lo dico sfidando gli insulti dei bernardobertolucciani più intransigenti: Virzì festeggia i 60 con il secondo atto del suo Novecento, un Novecento della commedia.
I furbacchioni dei sequel battono il ferro finché è caldo, non aspettano di incanutirsi per sfruttare l’inerzia di un grande successo. Dopo quel boom (anche di critica) del 1996 il nostro amico livornese è stato martellato dai produttori perché sfornasse in corsa un Ferie d’agosto 2, come da solida prassi vanziniana. Per tornare a Ventotene, stessa spiaggia stesso mare, ha aspettato invece di avere qualcosa di compiuto da dire, portando a galla anche il bagaglio antifascista legato all’isola, che nel primo film era solo accennato.
Memorie di antifascismo
Tra il settembre e l’ottobre del 1995 c’ero anch’io, su quel set di Ventotene. Sono cortocircuiti di vita e memoria che pesano sulle emozioni. Come pesano i nomi dei confinati antifascisti, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Sandro Pertini, tra gli altri, ma anche Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che sull’isola misero a punto il loro progetto di unità europea.
Sono nomi che in famiglia mi hanno trasmesso col biberon: fanno parte del mio bagaglio politico come di quello di Virzì. Ma al di là delle viscere, della memoria diretta e di quella sedimentata, non si è mai vista una commedia vacanziera iniziare con una lettera a Ursula von der Leyen, per sollecitare la consacrazione del poggio isolano dove l’Europa di oggi iniziò il suo cammino.
Silvio Orlando, cioè il Sandro Molino ex giornalista dell’Unità del primo film, sta dettando la lettera al nipote bambino, il solo congiunto interessato a quei racconti di fantasmi. Fascismo, confino, persecuzioni e dittatura sono parole che qui da noi non spaventano più. Il film si è già guadagnato una sponda inconsueta. Il 18 marzo è in programma una proiezione ufficiale a Bruxelles per il parlamento europeo, von der Leyen presente. Nel racconto, il ritorno a Ventotene della tribù gauchista è una cerimonia degli addii: l’intellettuale patriarca è in fin di vita e il figlio Altiero (come Spinelli), che in Ferie d’agosto Laura Morante portava in grembo, è diventato un nerd milionario del digitale.
Come i Blues Brothers
Sto depistando, però. Questo Ferragosto-bis è soprattutto commedia, feroce e malinconica come tutte le vere commedie d’autore. La scuola non è acqua, Paolo Virzì è stato l’allievo più brillante di Furio Scarpelli. Le sue ultime collaborazioni di scrittura non mi convincevano: posso dirlo perché con lui non ne ho fatto mistero. Adesso ha riunito la vecchia banda, come i Blues Brothers, e ha lavorato con suo fratello Carlo e con Francesco Bruni, il compagno di scuola già partner anche per Ferie d’agosto. Il risultato si vede.
Sull’isoletta un tempo spartana tutto è cambiato salvo la collisione frontale fra le tribù originarie, gli intellettuali Molino e i pacchianissimi Mazzalupi. Dei Mazzalupi restano le matriarche Sabrina Ferilli e Paola Tiziana Cruciani. I capifamiglia Ennio Fantastichini e Piero Natoli li abbiamo persi anzitempo, ma il film trova il modo di celebrarli senza retorica. A scatenare lo scontro-bis è un evento mondano da telecronaca social-trash: il matrimonio di Sabry Mazzalupi.
Da ragazzina goffa «con deficit cognitivo» è diventata una diva del web, una influencer di serie C che detta legge su smalto e capelli. L’innesto di Anna Ferraioli Ravel (Sabry) e Vinicio Marchioni (Cesare, il promesso sposo) sul vecchio ceppo era una sfida, sintonizzare due nuovi strumenti solisti con un’orchestra rodata non era una passeggiata. Ma i due portano splendidamente il carico più consistente delle risate, emblemi del misterioso contagio da social senza mai diventare macchiette.
La destra
Cesare è un viscido sfruttatore, un palestrato arrogante (e omofobo, e devoto alla sinistra simbologia dei parà) che vampirizza senza ritegno la fidanzata. Sabry è una vincente per caso e una vittima per vocazione, la principessa infelice di un regno di cartapesta. Ma i Mazzalupi coagulano sentimenti molto diffusi. Le nozze della celebrity galvanizzano il sindaco: «Prima di Sabrina questa isola era nota solo per cose tristi del passato». Che poi, così tristi davvero? «Aperitivi, spiaggette, vacanza, a quella gente gli è andata bene», commenta la povera star. Sono le scorie del chiacchiericcio corrente.
La mamma di Sabry è suonata come una campana, ma a modo suo è “connessa”: «Che pure ‘sta storia degli ebrei, dice su internet che se la sono inventata». Gli equivoci da incomunicabilità sono fantastici. Quando le ruspe della wedding planner spianano la baracca-laboratorio clandestina di Altiero Spinelli, Silvio Orlando protesta indignato. Comprensivo, lo sposo si scusa: «Capisco, quanti bei ricordi sul muretto degli spinelli!».
Dulcis in fundo, un misterioso partito spedisce emissari per arruolare la sposa, col suo patrimonio di follower, nelle file dei suoi candidati. I fac-simile dei manifesti sono già pronti: «Sabrina Mazzalupi/ Orgogliosamente Italiana». È l’Italia dei fanfaroni spiantati col mito cheap di Dubai. Christian De Sica, neo-fidanzato di Sabrina Ferilli e sedicente “ingegnere”, le promette una vita di lussi e intasca mancette umilianti senza vergogna. È ancora lei, la Marisa di un tempo, la più onesta e più lucida della brigata.
La sinistra
Non è che i radical-chic (epiteto che manda in bestia Silvio Orlando) se la cavino meglio. Virzì raschia sottopelle le rogne di una sinistra paralizzata dal complesso della sconfitta, di «quelli che non hanno vinto mai». Le rigidità ideologiche alzano muri, perfino tra padre e figlio. Altiero è regolarmente sposato con un androgino vegetariano e ha fatto i soldi in America per vie che un comunista “rompicoglioni” all’antica come Molino nemmeno prova a capire. Mantiene chiara, e fermissima, la linea di demarcazione, nella foschia del presente: «Se la parola fascismo va bene, per la parola democrazia va malissimo». Ma in sogno si fa rimbrottare da un giovane Sandro Pertini: «Non sai divertirti, non sai voler bene, non sai vivere».
È il bilancio esistenziale di una specie in via di estinzione. O forse no, se un ragazzino ha ancora voglia di prestarle attenzione. «Magari – scherza Virzì – sarà il prossimo leader della sinistra». Il paradosso è che la voce in cui tutti finiamo per riconoscerci davvero è quella di Daniela (Emanuela Fanelli), un corpo estraneo, l’ex dello sposo piantata per calcolo. Parla una sola volta, ma il senso è: il mondo va a rotoli, e ce la siamo voluta.
Tralascio mille finezze, è un film da vedere più volte. Al cinema in piazza di Ventotene (rigorosamente in pellicola) passa un film vero che è quasi impossibile riconoscere, Il senso della vertigine di Paolo Bologna. Un proprio film, gemello e lontano, da saccheggiare legittimamente è una miniera d’oro per un regista. Permette di andare a spasso nel tempo senza truccare gli interpreti. Qualcosa di simile fece Robert Guédiguian (sinistra francese) quando nel suo La Villa (La casa sul mare, in Italia) inserì spezzoni di Ki lo sa? con i suoi attori feticcio più giovani di trent’anni. Significa riannodare un racconto e scegliere la giusta distanza. Il manifesto di Un altro Ferragosto lo ha disegnato in proprio Paolo Virzì. Se aspetti quasi trent’anni, le cose devi farle per bene.
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