Archy vive in un bosco, ha una madre violenta, molti fratelli e sorelle e un padre morto. Caduto da un albero quand’è un cucciolo, resta zoppo e la madre lo vende per una gallina e mezza. Lo dà a Solomon, volpe despota che di mestiere fa l’usuraio e che con una Bibbia ha imparato a leggere, scrivere e pensare. Da adesso Archy, che conosce solo la mera sopravvivenza, può evolversi. Ma “crescere per diventare cosa, per assomigliare a chi?”

Bernardo Zannoni, ventiseienne di Sarzana, ha scritto l’autobiografia di una faina, I miei stupidi intenti per Sellerio: un romanzo di un’originalità stupefacente. È il cuore pulsante del senso dello spaesamento che nasce con la scoperta di sé.

Perché hai scelto una faina?

Da bimbo rubavo il telecomando della tivù a mio nonno e lui mi urlava vieni qui, faina, t’ammazzo! È un bel ricordo, l’ho scelta pure per questo. E poi sono animali ignorati, sai. All’inizio volevo scrivere di una volpe, ma ho pensato che dare onore alle faine fosse giusto, e divertente.

Volevi scrivere una storia di animali, quindi.

Sì. Secoli di fiabe ci hanno condizionato facendo sì che leggendo una storia con animali protagonisti non ci chiediamo il perché di qualcosa: è così com’è e basta - credo abbia a che fare con la loro istintività. E visto che non ne volevo, di costrizioni, ho scritto di animali e di un bosco.

Ma sei cresciuto in mezzo ai boschi?

No, macché, sono un ragazzo di città. È che mi piace l’indefinito.

L’indefinito?

Volevo qualcosa che non fosse troppo reale. Se avessi parlato di una città, Carrara o Roma, mi sarei annoiato. Non avrei potuto giocare, non avrei potuto infilarci l’immaginazione. Restando nell’indefinito invece potevo fare quello che mi pareva.

A proposito di indefinito. Come lo definiresti, il tuo romanzo?

Non ho mai tentato di dargli una definizione. Non mi sono mai posto il problema. Ho solo seguito gli eventi. Partendo dalla prima frase, un periodo logico compiuto, sono andato avanti dando un senso al resto.

Capiterà però che te lo chiedano. I lettori lo fanno.

Quando succede rispondo solo è l’autobiografia di una faina.

Reazioni?

Ricevo quasi sempre occhiate confuse accompagnate da frasi come sì, dai, magari lo leggo, grazie. È divertente.

Perché, però? Perché non la cerchi, una definizione?

Cercare una definizione unica di qualcosa è sempre un azzardo.

Per tutto o per la letteratura soltanto?

Dipende. Ci sono opere d’arte, di qualsiasi forma, che possono anche rientrarci, in un canone. Spesso però le etichette sono un po’ delle forzature.

Trovi che le definizioni siano limitanti, quindi.

Sì, certo. Cammini per strada, vedi un sasso per terra e lo chiami sasso. Vai avanti, ne vedi un altro e anche quello lo chiami sasso. Ecco, fai qualcosa di un po’ restrittivo, forse, no? Il primo, magari, era di un materiale, il secondo di qualcos’altro. Forme simili, paste diverse.

Perché allora c’è spesso la necessità di etichettare?

Definire è una nostra peculiarità, e ci serve a orientarci nel mondo, ma cose apparentemente simili possono essere molto diverse.

Entriamo nel romanzo. Annette, madre di Archy, sembrerebbe un genitore degenere ma altro non è che un essere vivente che segue l’istinto nel tentativo di sopravvivere alla vita. C’è un momento, per te, in cui i ruoli imposti dalla società decadono?

Tornerei alle definizioni e ai loro confini. I ruoli di ognuno decadono quando raggiungono il loro stesso limite: niente è mai davvero definibile. Una madre non è mai soltanto una madre ma è qualsiasi altra cosa possa essere. È la società a porci dei limiti.

E se questi limiti non esistessero?

Seguiremmo gli istinti, pure i più stupidi e immediati. Adesso, magari, potrei darti un colpo in testa e ballare nudo. La società mi dice che non posso, ci sono delle regole: i ruoli ci definiscono in base a ciò che non possiamo fare.

Vorresti darmi un colpo in testa e ballare nudo?

Era un esempio, eh (ride e rido pure io, ndr).

Torniamo ad Annette.

Annette è un personaggio bilaterale, nella mia incoscienza di scrittore è venuta fuori così. Da una parte l’istinto le ordina di mantenere i suoi cuccioli giacché il compagno è morto, e dall’altra i suoi desideri le fanno immaginare una vita diversa da quella che ha.

Incoscienza di scrittore. Che intendi?

È il lettore che trova dei significati all’istintività della mia narrazione. Io, scrivendo, andavo avanti seguendo un filo logico che conciliasse ciò che avevo detto prima a ciò che stavo dicendo ora.

Quindi per te sono i lettori che danno senso alle tue parole?

Bene o male direi di sì, pure se capita che il significato dato a qualcosa sia sbagliato. Durante un’intervista tempo fa un tipo mi ha chiesto se Solomon fosse ebreo. Mi è quasi caduto il telefono, sono solo riuscito a dire come fa a essere ebreo? È una volpe. Inconsciamente, mi sono detto poi, avevo dato dei dettagli che potevano far pensare così.

I tuoi animali sono praticamente tutti orfani – anche da un punto di vista emotivo. In letteratura, specie quella di autori e autrici giovani, capita che i personaggi siano orfani – di nuovo, anche e soprattutto da un punto di vista emotivo. Avvertiamo la mancanza di capisaldi?

Forse è l’espressione di un sentimento comune di spaesamento. Senso che deriva, tra l’altro, da rapporti superficiali. Rapporti che, anche per via dei social, stanno diventando labili.

Che ci sia un certo spaesamento mi pare evidente.

Il mondo è ormai, agli sguardi più canonici, illeggibile. È un po’ come se seguisse un concetto per cui non esiste niente che si possa definire davvero; e torniamo alle definizioni. Il problema è che quando niente si può definire, rimaniamo senza bussola, in balìa di noi stessi. Da una parte è bello perché a governarci sono i movimenti di pancia dall’altra rende tutto difficile da capire.

C’è tanta solitudine nella tua storia. È una condizione umana comune?

Per me la solitudine è fondamentale per crescere. Quando sei solo sei tu l’avversario più feroce che hai, ed è nello scontro con te stesso che maturi. Tant’è che Archy cresce in una solitudine ferrea.

Non può diventare fagocitante?

Sì, ma, come diceva Osho, le persone capaci di star sole non sono mai sole. La solitudine non è il trovarsi spesso con i propri pensieri e basta, è stare a disagio in situazioni del genere.

Siamo sempre alla ricerca di contatto, in effetti.

Sì, pure troppo. Conosco ragazzi e ragazze che finita una relazione ne iniziano subito un’altra, e poi ancora e ancora e ancora. Non hanno mai fatto una settimana senza qualcuno accanto. E tutte le volte che parlo con loro ho la sensazione d’avere davanti gli stessi ragazzi e ragazze dei tempi del liceo.

Quando Archy può finalmente sfruttare appieno il libero arbitrio, parrebbe soffrire di più. È così?

Be’, il libero arbitrio comporta pure una certa dose di dolore. Significa prendere una decisione pure se fa male. C’è sempre chi prenderà la strada più facile ma è una scelta anche quella, in fondo. È bello affidare tutto a Dio, però di fatto Dio ci guarda e sta zitto, non è che ci indichi la via. Prendi Archy. C’è un momento in cui per la prima volta decide per sé – il libero arbitrio, appunto. Ed è quando scopre Louise, la sorella di cui era innamorato, morta, uccisa dalla loro madre. Da lì Archy deve fare delle scelte.

Questo per te è crescere?

Questo è il trauma, che forse un po’ tutti dobbiamo vivere, che lo forza ad andare dal punto più disilluso a quello più maturo.

Identità e destino, nel tuo romanzo hanno ruoli assai importanti. Perché prima Solomon e poi Archy faticano ad accettare chi sono?

Intendi perché non riescono ad accettare d’essere animali?

Sì.

Da un certo punto in poi, non sono più degli animali. Nel momento in cui, con le scritture di Solomon, Archy guadagna la coscienza cessa d’esserlo. Certo, avercela, una coscienza, significa pure soffrire tant’è che Archy è felice quando si comporta da animale e usa l’istinto, ma acquisita una coscienza non può più tornare indietro: l’evoluzione del pensiero porta a far sopire gli istinti.

Allora quand’è che viviamo e quand’è che sopravviviamo e basta?

Punti di vista, direi. Per me, potrebbe pure essere una vita invidiabile quella dettata dall’istinto. Quando hai la possibilità di decodificare il mondo però il tuo sguardo cambia per sempre. E allora paradossalmente non puoi più scegliere: puoi solo vivere, e quindi soffrire.

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