Poetessa, visual artist, musicista. Dalla band free jazz Irreversible Entanglements al collettivo Black Quantum Futurism, fino al duo 700 Bliss, Moor Mother porta la sua visione avanguardista – un indissolubile intreccio fra suono, politica e attivismo – dovunque metta le mani. Come solista, ha pubblicato otto album a partire dal 2016, proponendo un genere ibrido e molto personale: un misto fra elettronica, hip hop e spoken words, cioè quel parlato che si ascolta in The Revolution Will Not Be Televised di Gil Scott-Heron e spesso veicolo di denunce sociali nella cultura statunitense.

Moor Mother è il nome d’arte di Camae Ayewa. È nata a Philadelphia, in Pennsylvania, vive in California, dove insegna teoria della composizione, live performance e curatela alla USC Thornton School of Music. Quest’anno è stata invitata a curare la sedicesima edizione del Transmission Festival di Ravenna, un evento dedicato alle nuove sperimentazioni della musica elettronica e alle frontiere della scena indipendente internazionale. In Italia Moor Mother si è anche esibita con gli Hoi Ensemble, una band formata per l’occasione, per portare la sua idea di musica sul palco del Teatro Rasi.

Com’è stato curare il Transmission Festival?

Mi piace molto fare curatela, è un modo per tenere insieme una comunità, dove ognuno può condividere con altri il suo punto di vista. In questo caso ho chiamato una serie di artisti che per me sono cari amici, come una famiglia. Apprezzo molto quello che il Transmission Festival e tutte le persone che gli girano attorno fanno sul territorio.

All’attivo ha molti progetti e collaborazioni varie. Come riesce a farli convivere?

Non è facile, perché l’industria vorrebbe che un musicista avesse un unico progetto, con cui pubblica un album all’anno e rientra in un calendario preciso, per accontentare il mercato. Ma per me la musica non funziona così. Preferisco mantenere un approccio olistico, in cui mi concentro su un aspetto o su un altro in base al tema che sto seguendo, senza darmi troppe limitazioni. Certo, in questo modo sto ancora pubblicando la musica scritta nel 2020 e devo dire che avrei voglia di un po’ più di contemporaneità, di pubblicare qualcosa più collegato al punto in cui sono in questo momento.

Nelle sue produzioni musicali si è occupata molto di temi sociali, come il razzismo, la storia degli afroamericani, il femminismo. La sua ricerca musicale è separata dalla ricerca storica e dal messaggio sociale?

No, per me sono un’unica cosa. Sono ricerche che intraprendo per la mia vita: non riesco a separarla dalla musica. La musica è uno strumento di liberazione. Tutti i miei lavori sono molto politici. Il prossimo lo sarà moltissimo. Non è che mi dico: «Adesso mi siedo e scrivo una canzone sul razzismo». Fare ricerca è una grossa parte del mio lavoro: è un’estensione di quello che sono, di ciò che ho studiato e in cui credo. Sicuramente, per quanto riguarda il razzismo, oggi c’è maggiore consapevolezza su quanto sia violento negli Stati Uniti, perché grazie ai Social Media abbiamo visto immagini e video davvero orribili e credo che il mondo stia reagendo in maniera diversa, più attiva rispetto al passato. Una volta, per esempio durante il movimento per i diritti civili, i media catturavano giusto un piccolo assaggio, una minuscola parte delle crudeltà che accadevano.

Nell’album The Great Bailout uscito lo scorso marzo, parla di schiavitù, dell’eredità postcoloniale europea e di un grande indennizzo che il governo britannico ha estinto pochi anni fa nei confronti dei possessori di schiavi. Un indennizzo introdotto al momento dell’abolizione della schiavitù nel 1833 e che non ha mai avuto un’analoga controparte per le persone ridotte in schiavitù.

Credo che ci dovrebbe essere una sorta di rivendicazione dovunque ci sia stata schiavitù. Dovrebbero esserci delle politiche per compensare quanto è successo, le scuse non bastano. Non è rilevante quando sia accaduto nel corso della storia, se le conseguenze si fanno sentire ancora oggi. La schiavitù continua a esistere in altre forme, ogni volta che si ottiene un vantaggio degradando la dignità e le risorse di un altro essere umano, anche quando delle multinazionali soppiantano piccole attività.

Secondo lei come può l’Europa compensare le sue responsabilità storiche?

Credo che ogni stato con un passato coloniale dovrebbe accogliere i migranti. Quale stato in Europa non ne ha? Anche l’Italia. Queste persone fuggono dal loro paese perché hanno a che fare con le conseguenze del colonialismo, con lo sfruttamento continuo delle risorse del territorio, con le guerre legate al post-colonialismo. Ognuno dovrebbe sentirsi responsabile, chiedere scusa per il passato non è abbastanza.

Com’è l’atmosfera negli Stati Uniti?

C’è molta retorica, molta messa in scena. È un momento di paura. Invece di creare comunità, si guarda ai vicini con grande timore. Ma la paura fa spendere soldi e fa acquistare armi. Credo che in questo momento sia molto importante il lavoro sulle comunità locali, chiedere e mettere in atto politiche locali, lavorare a favore delle persone e delle comunità, perché si possa rigenerare un sentimento di speranza.

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