Per il documentario 50 anni di Clu, abbiamo intervistato molte persone per provare a capire questa strana macchina che si chiama impresa sociale, una dimensione caduta fuori dal nostro sguardo. Lo diceva già Martin Heidegger, uno dei filosofi preferiti da Basaglia
Per il documentario 50 anni di Clu, abbiamo intervistato molte persone per provare a capire, in una sintesi di cinquanta minuti, cinquanta e passa anni di questa strana macchina che si chiama impresa sociale. Che è impresa, ci mancherebbe – cioè fatturato, efficienza, mercato e capacità di starci, appalti da vincere, costi e salari – e sociale.
È più difficile da capire, il valore di questa altra dimensione. Come si misura, come riusciamo a percepirlo? Perché – lo racconta spesso Umberto Galimberti – da molto tempo il sociale è caduto fuori dal nostro sguardo, e non riusciamo più a comprenderlo: «Inquietante non è che il mondo diventi una enorme struttura economico-tecnica, ancora più inquietante è che non siamo affatto preparati a questa radicale trasformazione del mondo. Ma la cosa più importante è che non abbiamo un pensiero alternativo a un pensiero che sa fare solo di conto». È Martin Heidegger, anno 1951.
La scoperta dei manicomi
È uno dei filosofi che Franco Basaglia legge e studia quando tenta la carriera universitaria, a Padova, Clinica delle malattie nervose e mentali. Il barone che governa la clinica, professor Giovanni Battista Belloni, lo chiama proprio così, «il filosofo». E non è un complimento. Capirà, Franco Basaglia, gli faranno capire, che non c'è futuro per lui in università, è troppo disallineato dai canoni della psichiatria. Così gli resta l'altra carriera, quella di serie B, il manicomio. Fa il concorso per fare il direttore di quello di Gorizia, lo vince.
È il 1961 e ci entra senza mai, prima, averne visto uno. Per quella storia della psichiatria di serie A, la clinica universitaria, un po' più pulita, e quella di serie B, il manicomio, che raccoglie e tiene dentro le sue mura i colossali fallimenti delle psichiatrie. Allora, di manicomi, in Italia ce ne sono circa cento, con dentro centomila persone. Che – questo colpisce Basaglia, subito, appena ci entra la mattina del 16 novembre 1961 – non sono più persone: sono internati, cose, corpi in divise misere, residui. Sono 650 e Basaglia – che è filosofo davvero – sintetizza con un fulminante: «Qui non c'è nessuno».
La questione è come far tornare umani, un po', il più possibile umani, soggetti, quegli oggetti doloranti. Ridotti così da un'apparato concreto – il manicomio, le mura, le sue regole – e da una visione, supposta disciplina scientifica, la psichiatria, che doveva curarli ma li sta solo malamente recludendo.
Basaglia, da solo per alcuni mesi, poi con l'amico e collega Antonio Slavich, ci prova. Mette in moto una macchina – che è anche una visione del mondo – fatta di incontri, parole, assemblea, gente che entra nel chiuso del manicomio. Molta fatica: «Giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente trovammo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro», scriverà dopo.
L’alternativa
Una visione imponente: pensare un mondo senza manicomi e pensare, anche, insieme a cosa costruire al posto del manicomio per quelli di noi che sono fuori di zucca, due pensieri mai pensati prima. Un altro pezzo di questa macchina di cambiamento prende forma nel 1972 a Trieste, quando Basaglia riprende il lavoro dopo essere stato allontanato da Gorizia. Per la volontà di un giovanissimo amministratore: Michele Zanetti, democristiano.
Si parte dal funzionamento dell'istituzione: il manicomio funziona anche sul lavoro degli internati. Che spalano il carbone nelle caldaie, lavano la biancheria, la distribuiscono nei reparti, cuciono le misere divise che tutti devono portare. Fanno cose. Ricevono in cambio un buono, un pezzo di metallo – il manicomio batte una sua moneta – da spendere nello spaccio interno e di cambiare.
Le psichiatrie la chiamano “ergoterapia”, cura attraverso il lavoro: forse un buon intento di base, ma nella concretezza desolata delle cose è un lavoro senza paga. E allora, si è detto nelle tante assemblee che hanno preparato la nascita di questa cooperativa, se è lavoro va pagato come tale.
Si chiamano diritti. Così vanno dal dottor Vladimiro Clarich, notaio in Trieste, e fondano la Cooperativa Lavoratori Uniti. Il tribunale respinge tutto: perché 16 dei 28 fondatori sono internati, non hanno diritti. Si trova un modo: la Provincia, con Michele Zanetti, vota una delibera che dice, di fatto che l'ergoterapia è una truffa a cui va posta la fine. La cooperativa si fa. Per riconoscere il valore economico di quel lavoro il suo valore sociale.
Storia di F.
Adesso 50 anni e passa dopo, questo valore sociale, ce lo racconta F., che per la Cooperativa si occupa di pulizia delle strade. Dice che il suo lavoro con la spazzatrice nelle strade di Trieste è il secondo che fa per la Cooperativa. Perché ce n'è stato un altro, molti anni fa. Poi se n'è andato per via di dissapori con qualcuno che dirige: «Non sono un tipo facile, lo so, salto su facilmente, mando tutti in mona». È tornato una decina di anni dopo. È sinceramente grato alla Cooperativa di aver potuto riavere un lavoro. «Sono cambiato, ho una figlia». Gli chiediamo che cosa ha fatto nei dieci anni tra queste due stagioni da lavoratore in cooperativa. Risponde senza esitazione: «Mi sono molto dedicato alle rapine».
Pare indebito chiedere dettagli. Ma F., generosamente, cita le galere dove è stato ospite, il magistrato che lo ha più volte condannato - «il dottor Dainotti. Lui faceva il suo lavoro, sempre corretto, io il mio» – i servizi per le tossicodipendenze che lo hanno rimesso in contatto con la cooperativa.
Il valore di quel sociale, di questa macchina che tiene la vita di F. in un meccanismo di senso e in un orizzonte di futuro, si può provare a vederlo allora, forse, per sottrazione: in qualche tabaccaio a cui viene risparmiata una brutta rapina; in qualche agente di polizia penitenziaria che non deve fronteggiare F. incazzato in cella – F. nei suoi momenti peggiori non lo si augura a nessuno – in quanto ci stiamo risparmiando, come comunità, ad avere F. che pulisce le strade invece che infrangere leggi.
E quella stessa grande dedizione che F. rivolgeva alle rapine la vediamo, adesso, riversata su un marciapiede. Testimoni noi, con le telecamere di questo strano documentario sulla nascita della prima cooperativa sociale del mondo. È un trasloco, uno spostamento, un pulire. F. riparte con la sua spazzatrice, veloce e preciso.
Massimo Cirri è psicologo, saggista, coautore del film “50 anni di CLU”, autore e conduttore di Caterpillar su Rai Radio2. In occasione del centenario della nascita di Franco Basaglia torna sugli schermi il documentario “50 anni di CLU”, diretto dalla regista Erika Rossi, prodotto e sostenuto dalla Cooperativa Lavoratori Uniti ‘Franco Basaglia’ con Ghirigori. Il film è scritto da Erika Rossi con Massimo Cirri, che nel film guida alla scoperta della prima impresa sociale al mondo, nata nell'ex Ospedale Psichiatrico di Trieste nel 1972, grazie all'intuizione pionieristica di Franco Basaglia. Da allora CLU porta avanti la visione di Basaglia: garantire il “diritto” al lavoro anche alle persone con disagio mentale. Al Teatrino Franco e Franca Basaglia di Trieste venerdì 15 marzo, ore 18. info ghiri-gori.com clufbasaglia.it
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