È molto metaforico e persino troppo facile che Rombo di Tuono sia morto nella serata della finale di Supercoppa italiana a Riad. Gigi era il simbolo di un legame tra il pallone e una città, così ci lascia proprio nel momento in cui il calcio viene sradicato dai luoghi a cui è sempre appartenuto. Forse questo sport si estinguerà o cambierà ingredienti, noi continuiamo a ballare di gioia per un gol di Pavoletti al 94’,
Cosa la fa sentire bene, a Cagliari? «Beh, adesso come adesso la gente. Penso che altrove ci sia un ambiente diverso, che non ci sia l’ambiente familiare che c’è da noi». Aveva 25 anni Gigi Riva, indossava un maglione chiaro, era seduto sulla spiaggia del Poetto, alla sue spalle il mare d’inverno.
Rispondeva così inquadrato dalle telecamere e giurava che lui non era malinconico, non era triste, casomai era solo un po’ chiuso. Lo dicevano anche di Pasolini e Berlinguer ma dev’essere un’accusa tremenda, quella di esser tristi. Pasolini rispondeva che al limite si sentiva mozartiano, Berlinguer si infastidiva «semplicemente perché non è vero».
Riva più che triste poteva essere ombroso, con quel buco nel cuore che è la cifra degli orfani: troppo dolore, troppo presto. Quel buco di senso lo ha riempito la gente, solo l’affetto poteva avvicinarsi a riempirlo. I soldi, insomma.
Dici Riva e pensi a Maradona, napoletano nato per caso dall’altra parte del mondo. E così anche per Gigi la sensazione è che il destino lo abbia soltanto riportato a casa: «Io sono sardo perché sono di poche parole», ha detto lo scorso giugno, 53 anni dopo quella vecchia intervista in spiaggia.
Però mi viene in mente Flavio Soriga, scrittore sardo vivente, quando dice che «i sardi non esistono così come non esistono i napoletani», intendendo cioè che sono molto diverse tra loro, le persone tutte, e che non esiste dunque un carattere unico e un unico modo di vivere la vita, e che è sempre troppo comodo o facile o retorico procedere per generalizzazioni.
Forse ha più senso dire, con Camus, che apparteniamo ai luoghi in cui siamo stati felici. E in questo sì, oltre tutti gli stereotipi, Riva può dirsi cagliaritano e sardo. In questo senso ha scelto di essere uno di noi: «Quello che ha reso per me tutto speciale è che ero sardo tra i sardi: ovunque andassi, da Alghero a Sassari a Cagliari, ero uno di loro».
Riva è stato cagliaritano per 60 anni su 79, amava la pesca subacquea, andava a polpi «perché i polpi sono furbi, cercano un sasso e se lo mettono in testa per non farsi vedere, ma io li scovavo lo stesso». Riva ha legato come nessuno il suo nome a una città in un’epoca del calcio in cui i calciatori non avevano voce in capitolo sul proprio destino: i cartellini appartenevano ai club e così le vite di quei ragazzi. Non era facile puntare i piedi ma Riva era uomo basaltico, come ha detto una volta Gianni Mura.
I fischi di Riad
È molto metaforico e persino troppo facile che sia morto in una delle giornate più controverse per la storia del calcio italiano, quella della finale di Supercoppa a Riad, tra Napoli e Inter. Il simbolo del legame tra calcio e territorio ci lascia nel momento in cui il calcio viene sradicato dalle città a cui è sempre appartenuto. È la tendenza di questi anni, è il turbocapitalismo applicato al pallone, la globalizzazione dei sentimenti.
Lo diceva Zygmunt Bauman: «Mentre nella prima modernità vi era un rapporto di dipendenza reciproca tra capitale e lavoro, oggi invece il capitale è sempre meno legato a un territorio». E nel calcio il capitale è stato per decenni espressione di un tessuto imprenditoriale ancorato ai luoghi, una questione sì economica ma spesso, quasi sempre, a conduzione familiare.
Gli ultimi dieci anni ci hanno portato altrove, i fondi stranieri hanno dilagato in tutta Europa sradicando il cuore pulsante del calcio continentale. Americani arabi cinesi. Mettiamoci nei panni di un ultras: quando le cose vanno storte non si capisce nemmeno chi bisogna insultare.
A certe derive del calcio liquido è dedicato un libro curato da Rocco Bellantone: Il centravanti e La Mecca. Calcio, Islam e petroldollari (Paesi edizioni). In un capitolo firmato da Stefano Piazza si analizzano gli investimenti degli emiri soprattutto in Francia.
«Lo sport ha aiutato molto a trasmettere nel mondo un’immagine “rassicurante” del Qatar, dietro la quale in realtà si cela un’azione finanziaria, politica e religiosa sempre più arrembante. [...] Il calcio è diventato un’importante questione di influenza politica e di soft power per l’emirato perché gli permette di irradiarsi a livello internazionale e di avere un’influenza politica attraverso i suoi investimenti finanziari a Parigi».
Quello che in molti sintetizzano con l’espressione “sport washing”. Nulla di nuovo a dire il vero, se pensiamo ai mondiali argentini del ’78, voluti e ottenuti da Videla, i “mondiali della vergogna”.
Al di là dell’economia e della politica è interessante notare come anche il tifo si stia progressivamente deterritorializzando. È un fenomeno che è sempre esistito, specie in provincia, dove le squadre locali vincono poco o niente e i più deboli di spirito affiancano una seconda fede spesso devota alle squadre strisciate (Juventus, Inter e Milan).
Casomai oggi è stato abbattuto qualche confine e i ragazzi tifano City, Real, Psg, indossano le maglie di Haaland, Bellingham, Mbappé. Ecco spiegato il progetto della Superlega: assecondare le inclinazioni dei nuovi clienti-tifosi. Insomma il calcio è diventato un weekend con volo Ryanair nel centro gentrificato di Porto Cagliari o Varsavia.
Il calcio dei clienti
Vittorio Sereni, poeta e interista, inventore per Mondadori della collana I Meridiani, diceva che essere tifosi di calcio è «un oscuro fatto personale», qualcosa cioè di ineffabile, che si annida nella prima infanzia, in quel posto dell’anima in cui siamo stati felici di una felicità in purezza.
Il ricordo di una nonna cardiopatica che lascia il soggiorno perché non regge i minuti di recupero, di una zia che salta su una sedia o balla per strada fuori dallo stadio. I giovani facciano quello che vogliono, sono giovani, hanno ragione loro anche quando non hanno ragione. Magari il calcio si estinguerà o cambierà ingredienti sino a sembrarci indigeribile.
E noi però facciamo il nostro pezzetto, continuiamo a ballare di gioia per un gol di Pavoletti al 94’, saliamo sulle sedie, facciamo vedere ai bambini come funziona, raccontiamo loro chi era Gigi Riva e preoccupiamoci il giusto dei petroldollari.
Prima degli arabi ci hanno provato i cinesi, si sono comprati l’Inter e il Milan, sembrava solo l’inizio e adesso sembra solo un ricordo. Prima ancora ci hanno provato gli americani, e quando si mettono qualcosa in testa gli americani. Si sono presi il mondiale del ’94, hanno investito in impianti e settori giovanili, perché quando gli americani si mettono in testa qualcosa. Voglio dire: avevano appena vinto la guerra fredda.
Trent’anni dopo ci hanno regalato Weston McKennie. Bel centrocampista per carità, ma forse è un po’ pochino.
«La Sardegna è già piena di basi militari. Lo sa che il 60% delle basi militari italiane è in territorio sardo? E siamo pieni di fabbriche che trattano e lavorano sostanze tossiche. È arrivato il momento di dire no. Abbiamo l’obbligo di lasciare ai nostri figli la Sardegna che abbiamo trovato». Erano gli anni Zero, l’Isola era stata individuata dal governo per la costruzione del deposito unico delle scorie nucleari (sta succedendo di nuovo), e Riva aveva fatto quel che gli è sempre riuscito meglio: difendere casa sua.
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