Bret Easton Ellis è uno di quegli scrittori che, quando ero un ragazzino brutto, basso e con pochi amici (oggi sono solo più alto), quando cominciai a leggere sul serio, mi fece dire «oddio, ma si possono scrivere anche cose del genere?».

Non lo pensai solo per la quantità di alcol, cocaina e sesso di cui facevano uso i protagonisti e di cui si raccontava con naturalezza impressionante, ma anche, soprattutto, per l’obnubilamento con cui i ragazzi abitavano quel loro mondo; posto sciccosissimo e tutto fatto di ristoranti costosi e feste eleganti, macchine sportive e vilette lussuose.

Ogni cosa, ai loro occhi, era priva d’importanza, così come ogni cosa era irrisoria ai miei, di occhi; all’epoca avevo l’età di Clay, il protagonista e voce narrante della storia, e per ciò che mi circondava provavo un’apatia assai violenta: proprio come quei ragazzi. Il primo romanzo di Ellis che lessi, insomma, mi colpì come una cannonata. Era Meno di zero, Einaudi 2006. Si tratta del suo esordio, che negli Stati Uniti divenne un caso editoriale e fiondò l’allora ventenne sull’Olimpo degli autori più chiacchierati e letti, un tale successo che persino il padre di Ellis tentò di ricucire con il figlio.

«Non parlavo con mio padre da diversi anni, ma quando Meno di zero divenne un successo cercò di riavvicinarsi. Ormai però era troppo tardi».

Rabbia muta

Decisi quindi di recuperare tutti i romanzi di quello scrittore recalcitrante. Mi parve subito chiaro difatti che il fumo alcolico e drogato dietro cui si celavano i suoi protagonisti affondasse le proprie radici nel terreno di una rabbia muta; i protagonisti di Ellis sono arrabbiati, però preferiscono stordirsi, nascondersi dietro una nebbiolina dorata. Lessi Le regole dell’attrazione, Einaudi 2006, e American Psycho, Einaudi 2005, Glamorama, Einaudi 1991, e Lunar Park, Einaudi 1999 , e ne rimasi folgorato. Quei libri avevano qualcosa di ipnotico, un movimento sensuale da cui non potevo staccarmi. I protagonisti, poi, erano tutti giovani, ricchi, bellissimi, abitavano delle vite da sogno, e presto nel mio immaginario si cristallizzò l’idea che Ellis stesso da ragazzo fosse assai simile a loro. Un uomo a cui non fregava del mondo, delle persone. E adesso, adesso che Ellis ce l’ho davanti, penso che l’immagine che ho sempre avuto di lui è, in parte, reale. Poggiato il mio cellulare sul tavolo accanto a noi, per registrare la chiacchierata, gli dico, come faccio con tutti, che dovesse dire qualcosa che non avrebbe voluto confessare possiamo poi modificarla a intervista finita.

«Lei dovrebbe conoscermi: crede m’interessino cose del genere, che mi freghi di ciò che pensa le gente di quello che dico? Non mi è mai importato, si figuri oggi, che sono vecchio».

Ecco, appunto: a lui del mondo non interessa niente – tuttalpiù lo osserva, per renderlo materiale narrativo. Ciò che mi colpisce è che si sia definito vecchio: che fine ha fatto quel ragazzo stupendo, dedito solo al sesso, e alla droga, e ai soldi, che ero convinto fosse?

«Mi sento vecchio, sì. Ho anche difficoltà a dormire: mi sveglio all’alba e non riesco più a prender sonno. Da giovane mi dicevo che mai avrei avuto il fisico di mio padre, lo guardavo in costume, pensavo: io rimarrò perfetto. Oggi esco dalla doccia, fisso il mio riflesso nello specchio e vedo mio padre. Ma va bene così: ho un fidanzato più giovane di ventitré anni, e tanto mi basta».

Memoir e narrazione

Dunque che fine ha fatto Clay, il ragazzo bellissimo e ricchissimo di Meno di zero? È tornato a vivere, in qualche modo, ma oggi prende il nome dell’autore che gli ha dato vita e abita tra le pagine di Schegge, Einaudi 2023. Il Bret del nuovo romanzo di Ellis, difatti, nasce da una costola di quel Clay, il personaggio principale dell’esordio dello scrittore californiano, e da lui muove i suoi passi lungo una storia che parrebbe l’adolescenza di Ellis.

«Tolti gli accadimenti di mera narrazione, questo romanzo è il mio memoir».

Una giovinezza vissuta di corsa, tra feste e droga e sesso. Un gruppo di amici belli e ricchi, e che tra di loro sono legati proprio dai segreti che hanno gli uni con gli altri. Un omosessualità abitata in segreto come fosse una colpa, intrisa di vergogna e sperimentata con i compagni di scuola e con uomini più grandi. In Schegge c’è un Ellis adolescente. Nato da un matrimonio infelice, i genitori cominciarono a litigare quando il figlio era ancora piccolissimo.

«Sono cresciuto tra le urla dei miei, litigavano molto di frequente, avrei voluto ricevere più attenzioni da loro, certo, e però sono venuto su in modo autonomo e ne sono contento. Avrei voluto che mio padre bevesse meno, e che non fosse un alcolizzato. Non sono stato il figlio che avrebbe voluto e non me ne ha mai fatto un mistero. Lo temevo molto, era un uomo volubile: prima dolce, gentile e poi rabbioso, violento. Non mi ha mai picchiato in modo esagerato, ma degli schiaffi me li ha dati, eccome se me li ha dati».

Ellis non visse la sua infanzia tra le mura della villa di famiglia a Los Angeles, passò gran parte del proprio tempo fuori, con gli amici.

«Prendevo la bici e andavo al cinema, a casa dei miei compagni di scuola, al parco. Sempre senza i miei genitori».

L’adolescenza l’allontanò sempre di più dalla famiglia non perché sia capitato qualcosa, ma perché quel che interessava a lui e alla sua cerchia erano le feste, i locali, le strade, e tra quelle feste, quei locali, quelle strade cominciò anche, nel frattempo, a rapportarsi con la propria sessualità.

«Capii di essere gay da bimbo e la cosa non mi diede mai alcun problema, poi però a diciassette anni cominciai a viverla male. I miei compagni di scuola, e gli amici, erano liberi di fare quel che volevano e potevano avere tutto ciò che desideravano: li osservavo, i miei amici etero, e mi dicevo che i loro desideri, le loro direzioni non avevano alcun limite. Io, invece, avevo molti confini: la mia omosessualità faceva sì che potessi avere meno degli altri – e, tra l’altro, ero innamorato di gran parte dei miei amici».

Le cose cambiarono al college, dove andar a letto sia con gli uomini e sia con le donne, indifferentemente, era frequente per i ragazzi della sua generazione.

«L’ironia è che al primo anno andai a letto solo con ragazze: non lo so, perché, ma andò così. Un mio caro amico e scrittore, Jonathan Lethem, invece, andò a letto con molti uomini, anni fa mi ha detto che non saprebbe elencare quanti gli abbiano fatto un pompino al college: c’era un bel rimescolamento e la cosa mi fece sentire così libero che presi a vivere con più serenità».

Ellis nel frattempo si approcciò alla scrittura. Non perché avesse delle velleità autoriali, ma perché credeva che quell’adolescenza infuocata andasse narrata.

«Volevo fare il regista, lavorare nel cinema, ma i romanzi arrivarono prima».

Meno di zero divenne un best-seller, e da lì la carriera di quel ragazzo appena affacciatosi sul mondo degli adulti decollò. Il successo internazionale, quindi, arrivò con American Psycho, un romanzo dalla scrittura barocca e sensuale e intriso di sangue, violenza, paura.

«La paura è uno dei motori immobili dell’uomo. Da bimbo temevo mio padre, la famiglia Manson, oggi di ammalarmi: le paure mutano ma non ci lasciano».

Il mondo, nei suoi quarant’anni di scrittura, nel frattempo si modifica ed Ellis, da spettatore, lo racconta - sempre a modo suo.

«È un altro pianeta. È cambiato tutto, e in peggio. Colpa dei social media, tutti oggi pensano di avere una voce interessante, e non è così. Però io ho trovato il mio equilibrio: sono un cuoco eccezionale, mi diverto molto a cucinare per amici, per il mio fidanzato».

Mai avrei creduto che l’autore di un romanzo violento come American Psycho si dilettasse tra i fornelli, però Ellis è stanco, dice, e in vita sua ha già provato, fatto tante, troppe cose.

«Dubito sarò ancora in giro a ottant’anni, non ho il fisico per tirare avanti fino agli ottanta. E va bene così, che cazzo. Che mi frega?».

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