Un mese fa Giovanni Allevi ha pronunciato un discorso denso di significati dal palco di Sanremo. Forse ritornare oggi sul suo monologo può essere un modo per sfidare l’algoritmo, per smetterla di considerare trenta giorni un tempo passato e iniziare a considerarlo un tempo necessario per elaborare una riflessione sufficientemente profonda su temi così esistenziali come quelli discussi dal pianista. In modo da astrarre la sua vicenda personale – andare oltre l’applauso facile o la critica al marketing del dolore – e renderla più collettiva.

Uno strumento che si potrebbe utilizzare per riuscire in quest’ultimo intento potrebbe essere il libro dei Tarocchi, un prodotto della cultura popolare erroneamente considerato divinatorio. In realtà i Tarocchi sono umanocentrici, cioè insegnano che non esiste destino o sfiga su cui ognuno non possa agire per indirizzare la propria esistenza.

Tra l’altro, consapevolmente o meno, Allevi ha usato delle parole chiave riconducibili con una certa esattezza ad alcuni archetipi collegati ad altrettanti Arcani Maggiori. Che non servono a prevedere il futuro, cioè a toglierci il gusto dell’autodeterminazione, ma a descrivere alcune fasi di vita che pur tra mille sfumature chiunque, prima o poi, si trova a dover affrontare. Molto spesso, tuttavia, senza sapere come affrontarle. E di solito in questi casi, che quasi sempre corrispondono alle fasi più critiche, la tentazione di abbandonarsi alla superstizione prevale sulla volontà di una presa di coscienza.

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«All’improvviso è crollato tutto».

Nei Tarocchi la perdita violenta di una qualche certezza trova una rappresentazione nella carta della Torre che si riferisce al verificarsi di un evento esterno, di grande impatto, che non può essere in nessun modo eluso. È il precipitare improvviso degli eventi, è il crollo verticale del pensiero su cui, fino a quel momento, avevi concepito la tua vita. Può essere il referto di una visita medica che rivela la presenza di una malattia grave, può essere la perdita del lavoro o di qualsiasi sicurezza materiale, può essere la rottura di un rapporto molto significativo, può essere l'arrivo imprevedibile di una pandemia.

Una Torre è l’espressione di un fatto traumatico nel senso etimologico: è una frattura insanabile. Si rompe per sempre qualcosa, si verifica un danno che non può essere aggiustato. Il mondo, per come lo avevi sempre pensato, ti frana addosso. L'aspetto positivo, raccontano i Tarocchi, è che la Torre viene colpita da una scarica elettrica solo in cima mentre le fondamenta rimangono stabili. E poiché la Torre non rappresenta altro che la casa interna di ogni essere umano, questo significa che se ciò che sei nelle tue profondità è solido, la tua identità e la tua forza d’animo non saranno compromesse.

A incrinarsi sarà solo la tua parte razionale, un qualche tuo ragionamento che non supera più la prova del reale: non avevi mai pensato di poter finire in mezzo a una strada? Ci sei finito. Non avevi mai immaginato di dover affrontare mesi di cure? Devi affrontarle. Non avevi mai calcolato di dover fare a meno, di punto in bianco, della presenza di una persona tanto importante? È quello che è accaduto. La Torre ha una qualità su tutte: è repentina, un fulmine a ciel sereno. D'altronde non fosse così imprevedibile e inattesa, il razionale – cioè quella certezza data ormai per scontata che crolla sotto il peso di un incidente improvviso – avrebbe il tempo di far scattare un salvavita, di “mentirsi”, di raccontarsi che tutto è sempre in suo potere e sotto il suo controllo. Mentre una Torre insegna che esistono circostanze che non possiamo governare. L’unica cosa certa è che per ricostruire una Torre che sia andata distrutta occorre del tempo. Perché non si può costruire sulle macerie, bisogna necessariamente tornare indietro, alle basi. A quello che sei, al netto di ciò in cui non puoi più credere.

«Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39, per un anno consecutivo».

Il punto di vista di chi ha lo sguardo rivolto verso il soffitto ricorda quello dell’Appeso, che è in assoluto la carta più introspettiva tra gli Arcani Maggiori. A differenza dell’Eremita, che sceglie volontariamente di compiere un viaggio dentro se stesso alla ricerca di una verità, la condizione dell'Appeso, proprio come avviene con la carta della Torre, è imposta da vicissitudini esterne particolarmente avverse che determinano una situazione di fermo. Ma il protagonista della carta non è solo impossibilitato a muoversi, è anche costretto in una posizione innaturale, scomoda, sacrificale: è appunto appeso a un albero per una gamba, obbligato a vedere il mondo da una prospettiva opposta rispetto a quella di tutti gli altri. In quella condizione, che lo rende così diverso, non ha possibilità di trovare negli altri reale comprensione. Difficilmente chi non si trova nella sua posizione riuscirà ad accogliere e comprendere la sua anomalia. Per questo motivo l’Appeso non potrà contare su altri che su se stesso, ovvero: dovrà imparare ad ascoltarsi.

Ad ascoltare le sue sensazioni più intime, che rimbombano nel silenzio che lo circonda e che pertanto possono essere vissute in maniera molto lucida. Trasformarsi cioè in intelligenza emotiva e quindi in empatia (metaforicamente: a testa in giù una maggiore quantità di sangue fluisce al cervello, che quindi risulta più ossigenato, in grado di raggiungere livelli di concentrazione più elevati). Quella dell'Appeso è una delle carte più lente del mazzo perché come suggerisce la sua posizione, che ricorda quella fetale, rappresenta il percorso attraverso cui ogni uomo partorisce se stesso, si ridà vita, a partire da quello che vuole essere e a prescindere dagli eventi, o da ciò che gli altri vogliono che sia.

«Quando tutto crolla, resta in piedi solo l’essenziale»

La lunga gestazione dell’Appeso culmina nella rinascita rappresentata dall’Arcano Senza Nome, che lo segue numericamente. Questa carta simboleggia l’essenza delle cose, la nostra scala dei valori, ciò che è veramente importante, e infatti è raffigurata da uno scheletro, la nostra struttura primaria spoglia di qualsiasi orpello. Per mettere in atto il cambiamento radicale che la tredicesima carta richiede di compiere, infatti, occorre ristabilire le proprie priorità e tagliare tutto il superfluo.

«Ho perso molto: il mio lavoro, i miei capelli, le mie certezze. Ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se il dolore mi porgesse anche degli inaspettati doni».

La Stella è la carta della speranza e del dono. Di un desiderio che si realizza. Non a caso arriva, per numero, dopo la Torre, con gli sconvolgimenti che una Torre comporta: è la capacità di considerare come un regalo qualsiasi imprevisto, qualsiasi caduta, qualsiasi svantaggio. Il fallimento diventa una cometa che indica la strada da seguire per raggiungere il proprio traguardo senza inciampare nei soliti tormenti. La Stella è la carta di chi, dopo tanto vagare, ha trovato il proprio posto nel mondo, denudandosi di tutte le apparenze e mostrandosi senza maschere. Simbolicamente è una guida interna nella quale possiamo confidare: è la nostra buona stella. Che nutre e allatta (la Via Lattea) con generosità e altruismo.

«I numeri non contano perché ogni individuo è unico, irripetibile e a suo modo infinito».

L’unicità, nei Tarocchi, è rappresentata dal Bagatto, l'archetipo delle infinite possibilità contenute in qualsiasi nuovo inizio. La carta dice che ognuno possiede in partenza tutti gli strumenti necessari per realizzare i propri scopi. Anche se il Mago, essendo associato al numero uno degli Arcani Maggiori, è ancora inesperto, poco consapevole dei suoi talenti e quindi insicuro.

«Il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo»

Quella del Giudizio è la ventesima carta degli Arcani Maggiori. Per comprenderne il significato bisogna comprendere la differenza tra avere giudizio ed essere giudicanti. Tra temere il giudizio altrui e l’essere impegnati ad abbattere un pregiudizio.

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