Riesco a scrivere solo dentro casa e al mattino presto, eppure nessuna di queste due condizioni è garanzia di rifugio, nido, luogo protetto. Non lo è per la mistura di paure e fantasmi che circola all’alba, e non è lo è, più tardi, per il frenetico confluire negli stessi quaranta metri quadrati delle vite degli altri
Ogni mattina, nel buio, non so quanto forte sarà il colpo. Tra le quattro e mezza e le cinque apro gli occhi e scappo dal letto. Giù dalle scale del soppalco puntellandomi alla balaustra e alla parete, la paura di cadere di faccia e rompermi tutti i denti davanti. Una maschera di sangue, nelle gengive solo monconi e radici, il pensiero immediato alle migliaia di euro per risanare lo scempio. I nuovi incisivi in ceramica, frutto di prestiti e supplizi, oppioidi e perni nell’osso, vireranno i miei tratti verso quelli di un cavallo?
Non si tratta di una semplice fantasticheria da dormiveglia. È successo davvero a un ragazzo che conoscevo anni fa, amico di amici. Irrilevanti le dicerie, i pettegolezzi montati al galoppo: chissà che aveva combinato la sera prima, sarà stato strafatto. Da allora l’esordio di ogni nuovo giorno lo vivo deformato dal presagio: replicare l’incidente domestico che, nel giro di poche ore, era passato di bocca in bocca tra incredulità e commiserazione. Inciampare in qualche vestito lasciato a prendere polvere sul pavimento. Oppure: afflosciarmi e piombare a terra per un calo di pressione.
Essere tradito dalla reale successione dei gradini e farmeli tutti in scivolata sulla mascella.
Ogni mattina scendo dalle scale del soppalco puntellandomi alla balaustra e alla parete e, una volta in salvo dalla prima minaccia, ripeto sempre la stessa sequenza di gesti. Faccio pipì, bevo un paio di sorsi d’acqua dalla bottiglia sul tavolo, riempio le ciotole dei gatti, assemblo la moka o verso del caffè solubile in una tazza. Prima però controllo che durante la notte non sia entrato nessuno. Lo faccio quando torno da fuori, se resto solo di sera e, appunto, ogni mattina quando mi sveglio. Guardo dietro ogni porta e ogni tenda, dentro al box doccia. Passo in esame i riflessi e le ombre al di là della finestra, cercando di distinguere, nel groviglio di foglie, teste e braccia intente a farsi avanti, forzare. Due occhi che mi guardano, un mormorio rauco, una pistola puntata dietro la zanzariera.
Da una stanza all’altra in attesa dell’aggressione fulminea, una vaga, ideale figura maschile che scatta fuori nel buio o appena aziono l’interruttore della luce, il colpo netto sul cranio o dentro la pancia. Lama, martello. La forza di un corpo vivo che non dovrebbe esserci e mi arriva addosso. Neanche il tempo di urlare, non urlerei. Appena la lasci a se stessa la casa produce una presenza mortifera. Un essere segreto e onnipotente che ti vuole ammazzare. Riesco a scrivere solo dentro casa e al mattino presto, eppure nessuna di queste due condizioni è garanzia di rifugio, nido, luogo protetto. Non lo è per la mistura di paure e fantasmi che circola all’alba, e non è lo è, più tardi, per il frenetico confluire negli stessi quaranta metri quadrati delle vite degli altri. La sfilza ininterrotta di riunioni e chiamate di lavoro del mio fidanzato, le liti dei vicini dell’est, che urlano, piangono, bestemmiano e si tirano oggetti, a volte sputi.
La musica a palla delle due ragazzine lisergiche con pitbull da poco venute a vivere nell’appartamento accanto, e del loro giro di fattoni rissosi. Il muratore che grida in continuazione alla figlia di sei anni: ti ammazzo di botte, lo vuoi un calcio nel culo?
Scrivo solo dentro casa e al mattino presto, in stato d’assedio, sommando ossessione a ossessione. La scrittura avviene negli interstizi dell’angoscia, nonostante o meglio grazie a essa. Ho paura di tutto, della strada e della tana, dell’estraneo e della famiglia, degli incontri diurni e notturni, del silenzio e del rumore. Sono abituato ad avere paura da così tanto tempo che ho finito per aver bisogno di averne. In assenza di catastrofi procedo a comporle. Non miro mai alla quiete, serenità: un altro modo di dire desolazione. Tutto in me porta i segni dell’invischiamento, della tensione.
Quando scrivo trovo attraenti solo le cose in cui riverbera l’urto o il tonfo, lo scoppio o la botta che ti spezza. Non c’è denuncia, qui il più grave fraintendimento, quello che mi accompagna sin dalle prime righe mandate in giro a mio nome: il trauma è la mia lingua materna, quella che mi fa sentire acceso e capace d’agire. Temo e provoco, infierisco e chiedo pietà.
Ecco la lezione prima, la mia sola radice. L’animale di pezza a cui mi avvinghio ha il ghigno raggelante del mostro, la bambola più bella l’ho sempre decapitata.
Non so mai dove, in me, finisce la tenerezza e inizia l’orrore.
Quando avevo poco più di un anno una notte cercarono di entrarci in casa dal balcone della cucina. Io e mia madre da soli nel bilocale del palazzone tirato su in fretta con materiali scadenti.
Si trattò probabilmente di un semplice avvertimento da parte del tizio con precedenti che viveva al pianterreno: mio padre, agente di polizia, aveva interferito con i suoi traffici, e andava rimesso a posto, colpito nel punto più vulnerabile. Il messaggio preciso: la ragazza e il bambino, a nostra disposizione, quando sei fuori tutto può succedere.
Un uomo si arrampicò sino da noi e cercò di sollevare l’esile tapparella di legno. L’unico dettaglio visibile dell’aggressore: le mani pelose strette alle listarelle tremanti. Sentendo mia madre chiedere aiuto al telefono – chiamava il suocero – l’uomo andò via. Non ci furono altri tentativi ma, quella sera, sulle nostre vite fu apposto un sigillo, una miniatura anticipatoria della storia che abbiamo vissuto in seguito, e di tutte quelle che scrivo.
Tornare col pensiero a quell’evento, negli anni, è stato più conturbante che doloroso: la conferma che sin da subito c’è stato un intreccio, che l’eccezione si è presa cura di noi. Intrattenere, intrattenersi: nessun abuso, in realtà, è peggio dell’isolamento, dell’insignificanza. Una vita minacciata è una vita che vale di più? Chi è stato allevato tra scosse e imboscate, nel fondo di ciò che gli altri semplicemente temono riconosce una gamma affettiva sconfinata, toni che vanno dal malissimo al piacere incandescente. Perché l’habitat naturale è diverso, incustodito da sempre.
Alle invasioni del passato torno e ritorno, scopro in me un’inclinazione creativa, affabulatoria, verso la violenza. Raccontando non ho quasi mai interesse per la correzione, il rammendo, la terapia.
La letteratura può affiancarsi alla giustizia, all’etica, ma la sua giurisdizione rimane autonoma, il suo potere obliquo sempre ancora da decifrare. Scrivere è anche solo colmare lo spazio che ci separa dal pericolo con qualcosa che dica il male assegnandogli un ritmo, grado minimo del controllo. Con serietà giocare a fare il carnefice e la vittima, poi di nuovo cambiare. Nessuna meta, punto di arrivo: raccontare è la pratica con cui il male può essere approfondito, avvicinato senza soccombere del tutto, non per forza sconfitto.
Scrivo per la libertà di stare vicino all’aguzzino che, fuori dalla pagina, sono costretto a scansare, e per lasciare uscire l’oppressore che, nella mia stessa mente, domina sotto copertura. Scrivere è il luogo in cui l’attacco può riconciliarsi con la bellezza. La possibilità, solo qui praticabile, che ti fa dire: è sbagliato, eppure mi piace. Non dovrebbe accadere, ciononostante non c’è altro che voglio.
Una parte di me spera di trovare davvero qualcuno in casa.
Siamo stati corpi a disposizione e scriviamo, immaginiamo, per addomesticare il predatore. Ma lo facciamo anche per onorare la compromissione originaria: ammettere che all’intimidazione a volte si è accompagnato il brivido, un appetito. Inammissibile, ma non per questo meno inebriante. Ti voglio da morire.
Possibile che io davvero sia attratto da questo? Il desiderio in segreto contamina, spariglia le carte.
Svanire nell’altro che ti sovrasta, annichilirsi sotto i colpi di un maschio, o camuffarcisi, mettersi nei suoi panni. Dominare, farsi soggiogare: dissolvere le gerarchie. Non renderle inoffensive, ma cangianti. Poterle percorrere in più direzioni, impadronirsene: la forza che non ci sarebbe mai stata senza il linguaggio.
Ora, nelle parole, mi so immedesimare e contraddire, c’è molto spazio qui dentro. Contro-incantesimo della lingua che narra, formule di liberazione: non sono solo questo singolo io. Noi siamo affollati di intrusi, case infestate.
Testo tratto da Dove si scrive, come si scrive, a cura di Carlotta Sanzogni e Pietro Baroni (Rizzoli)
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