La tregua ai conflitti in uso durante i Giochi dell’antica Grecia è la caratteristica più difficile da recuperare nell’era moderna: forse perché all’epoca lo sport serviva anche per preparare le guerre e nella sua versione moderna tiene viva la speranza nella ragione come via per la pace
Gran tipo, quel barone Pierre De Coubertin. Sebbene di formazione classica e umanistica, il fondatore dei Giochi olimpici dell’era moderna non doveva cavarsela male nemmeno con le scienze e l’astronomia. Per secoli gli umani hanno cercato, invano, di sincronizzare i calendari con la rotazione della terra intorno al sole. Poi, a salvarci dal caos del disallineamento tra la misura del tempo e il ciclo delle stagioni, è arrivato l’accorgimento di aggiungere 24 ore ogni quattro anni. Al barone deve essere piaciuto molto il significato simbolico di quel giorno in più, chiamato ad aggiustare l’imperfezione umana rispetto all’ordine cosmico.
Nella sua mente razionale, refrattaria alla superstizione e spinta da un cuore passionale da visionario, si accese l’intuizione della perfetta analogia con la funzione redentrice di cui stava per investire lo sport moderno. Perciò, dal lontano 1896, quell’evento planetario incomparabile, rappresentato dai Giochi olimpici estivi, coincide con l’anno bisestile nel ricordare all’umanità che lo sport e il 29 di febbraio, esistono per farci risuonare con l’armonia dell’universo.
Intellettuale ma pragmatico, il giovane Pierre riuscì in tempi decisamente rapidi – considerata l’epoca – a portare avanti la realizzazione del suo progetto. Nel 1894, quindi a 24 mesi dalla prima edizione, fondò il Comitato olimpico internazionale: aveva solo 31 anni ma era estremamente determinato, forte della solidità della formazione pedagogica, dell’ispirazione nata dall’incontro con Thomas Arnold (rettore della Rugby School) e della suggestione sollecitata dalle scoperte archeologiche nell’antica Olimpia.
L’entusiasmo, la fiducia e la sincerità che lo animavano sono espressi in alcuni, commoventi passaggi della Carta Olimpica: “L’obiettivo dell’olimpismo è porre lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità, con l’obiettivo di promuovere una società pacifica attenta alla preservazione della dignità umana. La pratica dello sport è un diritto umano. Ogni individuo deve avere accesso alla pratica dello sport, senza discriminazioni e nello spirito olimpico, che esige mutua comprensione, spirito di amicizia, solidarietà e fair play” (principi fondanti 2 e 4).
Pochi stralci per percepire la grandezza del fenomeno sportivo in tutte le sue dimensioni, dallo sport per tutti all’agonismo di vertice. Vastità che esprime perfettamente la delicatezza di uno strumento potente ma complesso, che può produrre grandi, benèfici effetti a patto che, come per tutti gli strumenti, si sappia farne buon uso.
L’utopia e la realtà
Come è inevitabile che sia per chi precorre i tempi, nonostante il rapido consenso raccolto attorno alla sua iniziativa, De Coubertin si sentiva solo e incompreso. Pare che durante la prima edizione dei Giochi olimpici, ad Atene, qualcuno gli fece i complimenti dicendo che era una manifestazione molto più bella di altre. Anche se i complimenti fanno sempre piacere, si tormentò a lungo cercando di capire quanto, realmente, venisse compreso il messaggio del suo progetto. Lo consolò il pensiero che, anche nella bellezza, vedere e sentire, occhi e cuore, possono non incontrarsi. O meglio, per dirlo con le parole che arrivarono qualche decennio dopo dal Piccolo Principe, “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Ecco sta forse qui, la grandezza dei Giochi olimpici la cui idea, nel tempo, ha saputo dare forma all’essenziale. In consapevole equilibrio tra utopia e realtà, il Barone credeva ciecamente nel movimento olimpico che sosteneva si con i principi ma anche con le proprie risorse economiche, arrivando a dilapidare il grande patrimonio di famiglia. Se fosse ancora tra noi, chissà quale sarebbe il suo punto di vista sincero e appassionato sulle tante sfide che i Giochi hanno dovuto affrontare. Probabilmente direbbe che la tregua olimpica era ed è la caratteristica più difficile da recuperare nell’era moderna: forse perché nell’antichità lo sport serviva anche per preparare le guerre.
I Giochi e i conflitti
Nella sua versione moderna invece lo sport serve, anche, per mantenere la pace. Nei 128 anni che separano la prima edizione di Atene 1896 dalla ormai imminente di Parigi 2024, per tre volte i Giochi Olimpici non sono stati disputati a causa dei conflitti mondiali. Altre tre edizioni sono state boicottate per conseguenze della guerra fredda e almeno altre due sono state compromesse da attentati terroristici. Ma è quella che sta per iniziare, probabilmente, la più difficile edizione di sempre: portare a termine l’evento in sicurezza sarà uno sforzo organizzativo enorme ma simbolicamente straordinariamente potente. Quando il 26 luglio si celebrerà la cerimonia di apertura, nel mondo ci saranno 59 conflitti aperti e un elevatissimo rischio di attentati. Come l’ha definita papa Francesco, la terza guerra mondiale a pezzi che però anche questa volta, non avrà spento la luce della fiamma di Olimpia, simbolo che tiene viva la speranza nella “ragione” come via per la pace.
Altre sfide che lo sport ha vinto, De Coubertin le avrebbe accettate ma probabilmente non capite. Difficile da credere ma anche per un uomo illuminato come lui, precorritore dei tempi, colto, sensibile, onesto, le donne non facevano parte dell’universo a cui guardava. In un saggio raccolto nell’opera Olympism afferma: “Lo sport femminile è la cosa più antiestetica che gli occhi umani possano contemplare” e di conseguenza impedì che le donne prendessero parte ai Giochi. Per fortuna anche cambiare idea è una virtù o una necessità, soprattutto se sulla tua strada incontri una grande, indefessa, sconosciuta ma straordinariamente caparbia e combattente, quale fu Alice Milliat.
Da quel primo match tutto francese “De Coubertin-Milliat” vinto ai punti da Alice, ebbe inizio la lunga rincorsa delle donne al diritto di partecipare. Ai Giochi di Londra del 2002, per la prima volta il numero delle discipline in programma per uomini e donne si equivalse. A Parigi 2024, per la prima volta, il numero degli atleti uomini sarà uguale al numero delle atlete donne. Il barone e la sua visione pedagogica dello sport ancora una volta gioiranno perché da una sua apparente sconfitta è nata una delle ricadute più belle e significative dei principi fondanti dello sport moderno: l’inclusione. L’inclusione per le donne prima, per le persone con disabilità poi, per le persone transgender d’ora in avanti.
De Coubertin che guardava all’Inghilterra in quanto potenza coloniale, un po’ con curiosità e un po’ con invidia, certo non avrebbe mai immaginato, nemmeno nella sua più rosea previsione che un giorno, il “suo” CIO sarebbe stato più esteso dell’Onu. Oggi, i suo membri sono 205 contro i 193 stati delle Nazioni Unite. Non ci sono classifiche né statistiche ma è opinione diffusa che il simbolo dei cinque cerchi intrecciati sia il più conosciuto al mondo.
Sono sempre più le istituzioni non sportive sovranazionali che riconoscono lo sport come strumento di crescita personale e di progresso sociale. Prima fra tutte l’Unione europea che, dal trattato di Lisbona in poi, ha assunto competenze crescenti in materia di sport. L’Onu, relativamente ai diciassette obiettivi sulla sostenibilità che si ripropone con l’agenda 2030, dichiara ufficialmente di volersi avvalere del linguaggio potente dello sport capace di accomunare popoli, culture e generi. In alcuni paesi lo sport è entrato nella Costituzione. Da settembre 2023 l’Italia è uno di essi. Oggi dunque ogni cittadino italiano ha il diritto di vivere l’esperienza sportiva e il sogno del barone, affinché lo sport sia al servizio dell’umanità.
L’articolo 33 della nostra Costituzione recita: «La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme». Dalla prima versione della carta olimpica a oggi, il significato della parola “sport” si è arricchito di tante sfumature. Dall’attività motoria, allo sport amatoriale, allo stile di vita, le varie forme dell’attività sportiva di cui ora, la nostra Costituzione riconosce il valore, rappresentano la varietà di un percorso imprescindibile per tutti: all’interno di questo percorso, per qualcuno, ci sarà anche l’occasione di scoprire un talento con cui aprire e chiudere una parentesi agonistica. Una parentesi appunto. In Norvegia, la popolazione è circa metà della Lombardia: più dell’80% dichiara di praticare. I genitori non accompagnano i figli a fare sport ma lo fanno insieme ai figli.
La specializzazione precoce non esiste: anche chi fa agonismo, pratica all’insegna della multidisciplinarietà e multilateralità fino almeno ai 12 anni. La Norvegia è in cima al medagliere dei Giochi olimpici invernali e vince molto anche nelle discipline del programma estivo. Il suo re Haral V, a sua volta atleta con tre partecipazioni ai Giochi, qualche anno fa fece un discorso sulla tolleranza e l’inclusione che divenne uno dei contenuti più apprezzati al mondo. Poco lontano da noi, esiste un’esperienza di cui il nostro Pierre andrebbe fiero e che dimostra come lo sport ci salverà, se veramente diventerà un’esperienza di tutti.
© Riproduzione riservata