Quando ho visto il film Enea, alla Mostra del cinema di Venezia a settembre, seduto di fianco a me nella Sala Darsena c’era un ragazzo sui 25 che si muoveva continuamente. A tratti, rideva in modo rumoroso. Erano le 8 e 30 del mattino e mi sono chiesta se non fosse già ubriaco. A fine film ho capito che aveva ragione lui. Si riconosceva nelle gesta del protagonista, Enea Tammaro, ideato e interpretato da Pietro Castellitto, che sebbene avesse una morale tutta sua, alla fine ti faceva venire voglia di fermarti con lui a fare tardi la sera e prendere posto nella sua vita da gangster senza pistola, nel suo locale di Roma Nord. Dove di certo nessuno ti avrebbe giudicato. Alla fine, un cattivo che speri si salvi. «Tutti i personaggi del film sono dei privilegiati, costretti a mettersi in una guerra per sentire la vita. Vivono in un ambiente saturo di pace, e sono costretti a inventarsi una guerra tra droga, competizioni, e altre sregolatezze: il paradosso è questo, che la vita la sentiamo meglio in guerra», dirà più tardi il regista alla conferenza stampa di rito.

Quel giorno, ha parlato a lungo anche Sergio Castellitto, padre di Pietro nella vita e di Enea nel film, cento film all’attivo e da poco presidente del Centro sperimentale di cinema: «I genitori in questa pellicola sono persone per bene, con grandi principi morali ma falliti, crepati dentro. Di contro i figli hanno la potenza, la forza, ma sono il male impersonificato. Sono romantici e tragici. E ciò li rende più leali dei propri genitori», ha commentato. E poi ancora: «Hanno dato ai figli nomi mitici, ma gli consegnano un presente che di mitico non ha nulla. E pertanto cercano di essere all’altezza delle proprie ambizioni, costi quel che costi». Un trattato di sociologia più che un film, in cui i giovani all’apparenza senza sentimenti, ne escono meglio dei grandi.

Oltre al padre e al fratello Cesare Castellitto, nel film ci sono Matteo Branciamore e Giorgio Quarzo Garascio, amici di Pietro anche nella vita, Benedetta Porcaroli, che interpreta la fidanzata, e Chiara Noschese che fa la madre.

Con Pietro Castellitto ci incontriamo prima dell’uscita del film nelle sale l’11 gennaio all’Hotel De Ville, a due passi dalla scalinata della Trinità dei Monti. L’altra sera era in tv ad Affari tuoi, per presentare la pellicola nel programma di Rai Uno più visto. Sui social lo hanno attaccato per essere stato inquadrato più volte mentre era al cellulare. «È un maleducato», scrivevano alcuni. Glielo dico. «Mi dispiace, è che mi scrivevano gli amici costantemente. Stavo seduto abbandonato a me stesso, e mi ero dimenticato di essere ripreso. Amadeus è molto simpatico», spiega.

Controlla mai che cosa dicono di lei sui social?

Ora meno perché le cose mi stanno andando bene, ma da piccolo i commenti mi indebolivano. Toglievano l’euforia necessaria che serve per fare le cose. Dopo quella mia battuta su Roma Nord che è come il Vietnam sono stato preso d’assalto, però gli haters mi hanno formato. Rafforzato.

Madre scrittrice, padre attore. Il cinema è stato un rischio.

Volevo fare altre cose, però la costante è sempre stata quella di tenere la mia vita il più lontano possibile dal senso di ansia che mi dava la scuola.

Materia preferita?

Filosofia. Ho fatto il classico, ero una sega in inglese e in latino e greco scritto. La scuola ero costretto a farla. Volevo che la mia vita assomigliasse a quella gioia incredibile che è il momento della ricreazione. O del venerdì.

E poi?

Ero scapestrato ma non al punto di arrivare a drammi familiari. A ricreazione giocavo a pallone ma non ero bravo da poter fare il calciatore. La vocazione è il mezzo che scegli per sentire l’avventura della vita.

Questo è il suo secondo film da regista, ed è stato attore anche per il film di Gabriele Mainetti Freaks Out. Ha avuto un clic nei confronti del cinema?

Nessun clic, è stata l’inerzia della vita che dopo un po’ ti porta a ripensare alle situazioni. Mi ero iscritto a filosofia, e mentre ero lì scrivevo sceneggiature.

La sua sliding door?

Una serie di provini come attore per un film in cui non mi presero. Così mi sono convinto che era destino che non dovessi più fare l’attore e le energie le ho messe nella scrittura. Sono riuscito a esordire alla regia de I predatori quando, anni dopo, mi hanno richiamato per il provino del film per cui ero stato rifiutato e che nel frattempo non si era fatto.

Un consiglio ricevuto da sua madre Margaret Mazzantini?

L’esempio di vita. Ci ha educati alla sincerità con noi stessi, importante per due motivi: coltivare l’ironia e avere un punto di vista sulle cose. Determinanti se fai un mestiere artistico.

Enea non segue i consigli del padre psichiatra e della madre che insegna yoga. Che cosa l’affascina di lui?

Il fattore che più di tutti ha costituito il formarsi della mia rabbia è stato quello del perbenismo e della retorica. Non in famiglia. La mia famiglia è sempre stata molto libera e molto estrema nei pensieri e nelle sintesi. Ma nella società e nell’università.

Ora in che fase della vita si colloca?

Un personaggio del film dice: “La vita non dura tutta la vita, la vita dura finché sei giovane”. Sono ancora giovane, però allo stesso tempo ho perso l’illusione della gioventù, il periodo in cui pensi di poter fare tutto, perché non conosci le tempistiche della vita. So che ora devo prendere una strada.

Cioè?

Faccio calcoli, mi dico: “Ora faccio un film, poi ne faccio un altro. E in poco tempo arrivo a 80 anni e se va bene farò 15 film da regista”.

Si dice che il tempo darà le risposte quando avrai dimenticato le domande.

Infatti. Io tra vent’anni vorrei fare altro. Mi piace l’idea di aver trovato pace in questo mestiere, e poi fare altro liberamente.

Che cosa la infastidisce?

Enea conduce una vita illegale e compie atti folli, ma allo stesso tempo senza mostrarsi, prende a cuore situazioni che lo fanno stare male. Vuole guarire quella vita là che lo colpisce al cuore. L’opposto di questo mondo in cui il bene è un mezzo per comandare. Perpetui il bene per comandare.

Mi spieghi meglio questo passaggio.

No, lasciamolo così come l’ho detto che poi finisco in un discorso pericoloso.

Che cosa ama di Enea?

È pienissimo di sentimenti. Lui fa quella vita proprio perché i sentimenti non li frena. Invece spesso chi non ha il coraggio di rompere certi limiti che la società t’impone, si ritrova ad avere sentimenti strozzati.

Che cosa vuole migliorare di sé?

L’organizzazione della mia quotidianità, spreco troppo tempo.

E a livello personale che cosa la limita?

Vorrei essere giudicato per quello che faccio. È il mio sogno. Senza avere a che fare con uno zoccolo duro di persone prevenute che senza vedere il film o senza conoscerti presumono di saperne su di te.

Suo padre è presidente del centro di cinema sperimentale. Politica e cinema, che cosa manca?

Enea è un ragazzo che lotta per creare una dimensione di vita più piena ed autentica. Io spero che il cinema e la politica in futuro si ispirino ad Enea.

Parliamo di lei.

Io mi ispiro ad Enea. È un prolungamento di ciò che sono e sarei potuto essere.

Chi l’ha aiutata a ideare il film?

L’ho scritto da solo, e montato con Lorenzo Mieli e Luca Guadagnino.

Non proprio due che passavano di lì. Guadagnino è tra i più grandi registi del nostro cinema ed è tra i suoi produttori. Una gran fortuna averlo tra i suoi contatti, diciamolo.

Questa fortuna non nasce da mio padre. Luca mi scrisse un’email dopo l’uscita de I Predatori. Il film non gli piacque, mi disse che cosa avrebbe cambiato ma gli piaceva che avessi un punto di vista. Quando è passato da Roma ci siamo incontrati e oggi è un amico oltre che mio produttore.

C’è qualcosa di cui si è pentito?

Mi pento quando non do retta a me stesso.

Che cosa ama della scrittura?

È piena di momenti in cui t’impantani. Ne esci ideando le difficoltà. Nella vita le difficoltà te le devi imporre e ti fanno scoprire strade che da solo non avresti avuto la forza di pensare.

Ascolta musica?

Ogni tanto, in maniera quasi terapeutica, riascolto gli 883. Mi ricorda il periodo in cui ero alle scuole elementari. Sono un’iniezione di nostalgia che mi ispira sempre.

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