Il cantante ha immaginato, scritto, diretto, musicato e prodotto un docufilm su sé stesso. La sua carriera sembra strabiliante, ma il suo concerto di Capodanno è stato un flop
In un’epoca di ego ipertrofici che celano scarsa autostima, la domanda da porsi – per affrontare il nuovo anno abbastanza corazzati contro i fallimenti che naturalmente attireremo – è solo una: quanto credi in te stesso da zero ad Achille Lauro?
Da dicembre è disponibile su Amazon Prime un docufilm su Achille Lauro, immaginato, scritto, diretto, musicato e prodotto da Achille Lauro. Per la questura il film ripercorre i primi dieci anni di carriera del cantante romano ma per gli organizzatori sono almeno trecento, vissuti sulla cresta di un’onda perpetua. Che però, a quarantotto ore dalla notte di San Silvestro, si è infranta sugli scogli di un destino cinico e baro: «uno degli artisti più popolari e apprezzati d’Italia» ha infatti dovuto annullare il concerto di Capodanno in programma a Cinecittà World visto che, a fronte di un cachet da centomila euro, i biglietti venduti erano stati appena un migliaio.
Così, all’alba del 2024, quello che sembrava semplicemente un racconto esagerato, si è trasformato in un manuale sulla mitomania contemporanea. Quella forma di autocelebrazione personale che non teme il fact checking e che fa della post verità il proprio faro: se puoi raccontarlo su un dispositivo mobile, allora è successo davvero. Anche se questa storia fintamente leggendaria è così gonfia d’ingenuità e di sfiga, più che di malizia, da apparire in effetti, in maniera perversa, geniale.
Racconto epico
In Ragazzi madre: l’Iliade, Achille Lauro intervista se stesso nei panni di quello che sembra un collaboratore di giustizia costretto a vivere sotto scorta: cappellino con visiera, sguardo in penombra, testa bassa, voce fioca, sottofondo musicale alla X Files. Tutto suggerisce che il protagonista stia per rilasciare dichiarazioni scottanti mettendo a rischio la sua incolumità. Così lo spettatore non può far altro che trattenere il fiato, sperando che nessuno irrompa con un kalashnikov e faccia una carneficina prima che Lauro abbia svelato qualche retroscena shock sul suo ultimo Sanremo.
E in effetti il racconto si apre con un segreto inconfessabile: Lauro, da ragazzino, rubava nei supermercati. Furtarelli, si potrebbe pensare. Ma invece no, perché tutto nella sua vita è grandioso, il vezzeggiativo è bandito. I furti venivano effettuati con «la tecnica dei due cestini»: uno veniva poggiato sul rullo, alla cassa, l’altro spinto con un piede, per terra. Non si capisce in che modo riuscisse a ingannare l’antitaccheggio, né a che punto si chinasse per recuperare dal secondo paniere la refurtiva. Ma questi sono solo dettagli, il vero mistero sono i «5/600 euro di roba» che si portava a casa senza averla pagata: il vero tocco da maestro è far entrare seicento euro di frutta e verdura all’interno di un cestino piccolo piccolo, almeno in tempi in cui l’inflazione era ancora sotto controllo.
Il fatto è che tutto, nel docufilm di Achille Lauro su Achille Lauro, diventa epico e straordinario. Ad esempio Rolls Royce viene definito «un brano non convenzionale, per quanto super marcio e super punk comunque anche ultrapop». Praticamente perfetto sotto ogni punto di vista. O per dirla con Mary Poppins: «Supercalifragilistichespiralidoso / anche se ti sembra che abbia un suono spaventoso / se lo dici forte avrai un successo strepitoso».
Sfide titaniche
Tuttavia, nella percezione del regista e del protagonista – che miracolosamente convivono in uno stesso corpo – toccare certi livelli di maturità musicale ha comportato non pochi sacrifici: quando con la sua squadra affitta una villa per produrre il nuovo album, si parla con la solita enfasi di «gente che non ha dormito per giorni». Un vero martirio. E ancora: «Dopo due settimane su Striscia la notizia (Valerio Staffelli gli aveva consegnato un Tapiro d’oro perché secondo Canale 5 la sua canzone inneggiava all’assunzione di droghe ndr) io non potevo più uscire di casa perché ero riconoscibile».
Questo passaggio in parte spiega perché per intervistarsi si sia travestito da testimone chiave in un processo per narcotraffico, in parte rappresenta uno dei momenti più commoventi dell’intera pellicola: Achille Lauro è convinto che il successo ottenuto nel 2019 sia riconducibile al Gabibbo e non al Festival di Sanremo, con i suoi dodici milioni di telespettatori. «Il Tapiro – ribadisce – è stato uno tsunami promozionale, nero ma comunque promozionale».
Nessuno, in questi cinque anni, ha ancora trovato il coraggio di dirgli la verità: tuo padre non è quel pupazzo vestito di rosso. O se qualcuno ha provato a essere sincero, lui non gli ha creduto. Come quando il produttore Daniele Mungai, in arte Frenetik, racconta di avergli sconsigliato di presentarsi all’Ariston per il secondo anno di fila: «Mi ha fatto sentire Me ne frego e mi sembrava un po’ Rolls Royce». Forse l’errore è stato dire «un po’» e non «è identica».
Resta il fatto che le sfide titaniche che Lauro ha dovuto affrontare da quel momento in poi non avrebbe di certo potuto superarle un Pollicino qualsiasi: «Quando il business è diventato consistente, confrontandomi con il mondo del lavoro con cui non avevo mai avuto a che fare, ho dovuto cambiare modo di parlare, modo di vestire, modo di essere, modo di reagire, tutto». Con il tono di uno che pensa che “il mondo del lavoro” sia un tizio poco raccomandabile e che lavorare assomigli moltissimo ad arruolarsi nella Legione Straniera.
Pure lo stylist Nick Cerioni, che ha curato la sua immagine a Sanremo 2020, parla dalla trincea di una guerra immaginaria combattuta in un teatro vuoto a causa del lockdown: «Un artista che si prende questo tipo di rischio (salire su un palco?) è un grande artista perché poteva essere davvero un disastro per la sua carriera. Ma quando ha sganciato il mantello è esplosa una bomba atomica». E con la consueta sobrietà e il solito senso della misura, che animano ogni minuto di questo documentario, descrive Lauro come «il più grande performer che questo paese ha mai visto». Anche se, involontariamente, alla fine si tradisce: «le facce delle persone vicino a noi erano un misto di terrore, disgusto, gioia e preoccupazione». Poteva andare peggio: nemmeno una gioia.
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