Nel romanzo del 1947 ripubblicato oggi, Flaiano affronta il grande rimosso della brutale colonizzazione italiana in Africa. Lo fa con una lingua esistenzialista che è l’opposto del realismo dell’epoca, ma coglie il fondo tragico delle vicende
Mi versò ancora da bere e disse seccamente: «Lei è un ragazzo». E si levò. Credetti di averlo offeso, invece rideva e uscì un momento dalla baracca, barcollando. Allora, spinto da una curiosità davvero puerile, aprii il cassetto del suo tavolo. Sapevo che vi avrei trovato quella ragionata confusione, quelle scatole piene di mozziconi di matite, di temperini, di francobolli, e di lettere legate con spaghi. E anche rimasugli di ceralacca. Ero soddisfatto. L’eleganza del maggiore mi appariva la facciata di un sordido edificio che potevo visitare ad occhi chiusi. Quando rientrò gli proposi di andare a svegliare le due ragazze (volevo soltanto rivedere quella che s’era seduta accanto a me, guardarla negli occhi e convincermi che le mie fantasie non meritavano molta attenzione). Il maggiore accettò, grato che fossi io a proporre la partita. Avrebbe studiato l’ambiente, avrebbe controllato se quanto dicevo era vero. Ed io ricordavo quel seno libero nella tunica, ma come si pensa ad una prova che occorre distruggere. Le tempie mi battevano e già mi spaventava questa vendetta impensata di lei. Non sarei più tornato al campo. «Portiamo una bottiglia| » disse il maggiore. Le ragazze non volevano aprire, si decisero dopo lunghe confabulazioni: e una di esse era rimasta a letto, giaceva quasi scoperta, come un caldo blocco di granito. Poiché c’era pochissima luce, il maggiore prese a palpare la ragazza cercando di dare ai suoi modi un carattere scherzoso. « Su, sveglia! » diceva.
In realtà metteva le mani sotto la tunica, sostava ammaliato, mi si rivolgeva con esagerata sorpresa, invitandomi a constatare che era proprio una bella ragazza, molto ben fatta, davvero molto ben fatta. «Senta qui, tenente». Sì, era proprio il tipo che avevo sospettato quel giorno che s’era messo a passeggiare su e giù davanti alla porta. Ora stimavo una vittoria, benché facile, esser riuscito a portarlo dove volevo.
L’altra ragazza fingeva di non riconoscermi, o non mi riconosceva davvero: non avevo più la barba lunga e non c’era motivo che lei fingesse. Stava in piedi sullo sgabello, caricava il fonografo, lenta, e quando l’afferrai sorrise. I suoi piedi toccarono il pavimento e io la lasciai: in quel corpo c’era l’indolenza che temevo. Mi chiesi se per questo avevo lasciato il camion proseguire oltre la collina, per ritrovare questo qualcosa che avevo già seppellito assieme ad altri errori. «Ricominceresti daccapo» pensai. Ero confuso, sicché mi sedetti sulla pietra del focolare e il maggiore, forse impacciato dal mio contegno improvvisamente serio, sturò la bottiglia, ridendo, chiedendomi una complicità che non ero più capace di dargli.
Quando mi porse il liquore e disse: «Su, beviamo», rifiutai. Era quello, dunque, il cognac della cassetta. Bevve lui un lungo sorso, per infondersi un po’ di coraggio, per infonderne a me, altrimenti non avrebbe resistito e tanto valeva che andasse a dormire. Non avrebbe resistito alle ombre che la lampada creava negli angoli della stanza, e che avevo dimenticate. Bisognava bere. Dopo un po’ mi sentii meglio e potei anche sorridere delle preoccupazioni che la mia mente si divertiva a propormi. Tutto era molto più elementare, io seguitavo a vivere ed era umano (anzi, giusto) che seguitassi a desiderare ciò che prima avevo desiderato. Se quella lunga solitudine mi consigliava di dare un estremo valore a un corpo indolente e a due occhi che conservavano ancora la supposta luce dei secoli scorsi, niente di male. Cercai la ragazza, era andata nella sua stanza e mi sorrideva. «Accettiamo la lezione di costei » dissi ridendo; e stavo per avviarmi, quando fui trattenuto dal chiasso dell’altra coppia. Il maggiore tentava di far inghiottire un sorso alla ragazza, ma ella si difendeva cortesemente. E il maggiore ne approfittava per gettarlesi addosso, ormai convinto che non l’avrei giudicato. Ma la ragazza si difendeva, purtroppo senza crederci, e quella scena mi parve insopportabile.
L’altra ragazza era nel suo letto e aspettava. Fuori c’era la buia notte della decadenza, senza ladri e senza nottambuli. Molti mesi prima, passando per Port Said avevo visto dal piroscafo l’ultima notte europea, i tabarin messi lungo il molo per dar tempo ai turisti di spendere la valuta rimasta in tasca. E una voce simile a quella che usciva ora dal fonografo, veniva dal molo. Potevo sentire da bordo, a quella distanza, i colpi dei tappi dello champagne, l’allegria un po’ spaventata dei turisti, che volevano divertirsi, ma non giungere agli eccessi che la notte e l’impazienza del ritorno consigliavano. Ed erano molto incerti se cedere all’arabo che proponeva una visita a quella tal casa. Andarci! Ma sì, l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza.
Mi accostai al maggiore e dissi: «La smetta». Non ne fu sorpreso e allora aggiunsi: «L’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, eh?». Scoppiò a ridere e le sue mani andarono rapide attorno alla vita della ragazza che gli sedeva accanto. Presi ad ingiuriarlo, ma egli seguitò a ridere e la sua socievole allegria, invece di calmarmi, aumentò l’inquietudine che mi tormentava. Ero io quell’uomo acceso? Conservavo lettere, fotografie, mi stimavo diverso da tutti gli altri? Ecco, il volto del maggiore si offriva come un bersaglio lungamente atteso. Era certo il volto di una qualsiasi persona, ma in quell’istante le rughe che lo segnavano non erano parole di una vecchia lapide che chiedevano soltanto lo sforzo di una traduzione? «Se uccidessi quest’uomo» pensai «seppellirei anche la parte peggiore di me stesso». Ma poiché il maggiore si incuriosiva, dissi: «Si diverta pure, buonuomo », e mi intenerii sinceramente, quando daccapo abbracciò la ragazza. «Le sue mani vogliono soltanto rendere un omaggio alla lunga noia dell’esilio» conclusi.
L’altra ragazza era sul letto, ora guardava le pareti della stanza e non vedevo più il suo volto. Ma la sentivo assente, immersa nella sua cupa pazienza, e i suoi pensieri non dovevano essere dissimili dai pensieri che precedono il sonno. Perché ero in quella casa? Che c’ero capitato a fare? Quando la lingua toccò l’incavo ancora sensibile della gengiva, rammentai tutto e conobbi la tristezza del prigioniero che vede giungere la sera e non è più capace di ridere. Il giorno è finito, domani si ricomincia, e l’unica speranza era forse quella lettera nella tenda del postino. Una lettera spiegazzata e, dentro, la sua scrittura fine e rotonda, con qualche parola vergata in fretta e la firma più timida che io conosca. Raggiungere quella lettera, anche subito!
Ma i camion erano fermi e gli autisti dormivano col fucile al fianco. E poi... avrei ripreso la via del fiume e delle montagne? «No» dissi «all’alba verso l’Asmara e al diavolo ancora le conseguenze». La ragazza mi aspettava e io bevvi, sino a vedere girare la stanza e le ombre della stanza. Bevvi di proposito, perché detesto ubriacarmi e non speravo da quell’alcool nessun sollievo. Non gli avrei certo chiesto un sollievo che soltanto io oramai potevo darmi, raggiungendo la ragazza nel suo letto e convincendomi che una vale l’altra. «Non è restato fuori nulla, tutto è nella tomba » dissi. Bisognava però caricare il fonografo, bere, sculacciare la ragazza, incoraggiare il maggiore: poiché è deciso, non sarei tornato al fiume. Ricoverarsi in un ospedale? Vedremo.
Le ragazze ridevano vedendoci così allegri, segno che la festa riusciva. Peccato non poter chiamare le nove (o dieci?) vicine coi loro bimbi. Forse era quello il momento di mettere la marcia militare? Ma sì, mettiamola pure. Quando il maggiore sentì le note marziali, corse a togliere il disco e poi a sdraiarsi sul letto della ragazza. Non sopportavo la sua improvvisa disinvoltura. Entrai nell’altra stanza e stetti a guardare la donna, già coricata, che m’aspettava senza annoiarsi.
Sedetti sul letto e la guardavo, anzi la consideravo. La sua pelle non era molto chiara, e il suo sorriso era quello di un buon animale domestico che aspetta. Restava immobile, non immaginando che la vedessi con tanta lucidità. «Era simile a questa» dissi. «Simile a questo animale che la solitudine aggravata dalla noia ti propone come un miraggio». O non cercavo di ingannarmi? Non cercavo una scusa che mi confortasse? Fui lieto trovandola nell’odore della donna, un odore vegetale, da albero paziente, misto ad un profumo così dolce da dare la nausea. Non osavo toccarla, e se il letto si fosse messo a girare, come temevo, dovevo andarmene. E invece bisognava restare. Tentai di fissare la donna negli occhi, aveva le pupille color nocciola, come del resto tutte le dame di quaggiù. Scoppiai a ridere. «Hai visto anche occhi verdi e grigi, che qui non esistono. Vuoi sapere di chi sono gli occhi verdi e grigi? Per favore, chi ha uno specchio?».
Seguitai a ridere e la donna rise anche lei, pazientemente, senza capire. «Maggiore » dissi. Mi rispose con un grugnito. «Maggiore» ripetei «s’è mai trovato in battaglia?». Rispose di sì, a fatica, un po’ meravigliato. «È possibile» chiesi «che un soldato metta fuori le budella e poi guarisca?». Benché seccato, disse che tutto era possibile e che lo lasciassi in pace. La ragazza che giaceva accanto a me allungò un braccio e una tenda di cotone divise le due stanze. Dovevo insistere? Non avrei saputo egualmente, chiedendo ad un medico, il giorno dopo, a quel medico che legge i suoi giornali nel boschetto di eucalyptus? «Quando si è feriti al ventre» dissi «è un’altra cosa».
«Un mio soldato se l’è cavata» rispose il maggiore e sentii che la ragazza rideva, forse per il solletico. «L’hanno operato subito?» chiesi e riuscii a sedermi sul letto. «Dopo sei o sette ore». Nella sua voce c’era l’impazienza per il dialogo al quale lo costringevo. «Supponiamo» dissi (e la donna mi guardava paziente, sorridendo, senza chiedersi la ragione del mio indugio) «supponiamo che io spari un colpo al ventre a questa ragazza...». Già mi chiedevo cosa poteva capirne il maggiore. Non era inutile ormai porsi simili quesiti infantili, accanto a quella ragazza che continuava a sorridere?
«Se ha voglia di sciupare cartucce, faccia pure» rispose. Poi aggiunse: «Le racconterò un fatto». E raccontò di una strage alla quale aveva assistito. «Erano briganti» disse «e il colonnello li voleva ammazzare tutti, anche i feriti. Occhio per occhio, diceva. E dove trovava un ferito, sparava. Sparava alla pancia. E quelli restavano a guardarlo, coprendosi gli occhi con la mano, lo guardavano di tra le dita. Venne il dottore e disse: “a se lei non gli spara alla testa, non conclude nulla con questa gente”. Allora il colonnello cominciò a sparare alla testa del primo ferito che vide. Il cranio scoppiò e il colonnello si trovò imbrattato. Se l’avesse visto! Era su tutte le furie. Investì il dottore di insulti: “Bei consigli che mi dà, lei” urlava. Dovette andarsi a cambiare».
La lampada a petrolio dava fastidio a tutti e io non sopportavo quella luce da caverna e le ombre che creava agli angoli della stanza. Si alzò il maggiore e la spense. Nel buio improvviso sentii che tornava a tentoni verso il suo letto, cercando di ridere, cercando di sentire soprattutto il suono del mio riso, che non veniva. La donna accanto a me voleva dirmi qualcosa all’orecchio, e rideva sommessamente. «Capisco» dissi «se si tratta di ferite leggere». Ma il maggiore non desiderava seguitare quel discorso e gridò scherzosamente: «Buona notte». Poi, dovetti sdraiarmi, la testa mi girava, colpa del liquore bevuto. Ora la notte era penetrata anche in quella casa e il letto ondeggiava sulle acque di un lago molto profondo e chiuso tra montagne ingrate più di quelle che aspettano oltre il fiume. E perché la gengiva doleva ancora?
La donna mi stava accanto, silenziosa. Dovevo chiederle almeno il nome, sentivo il suo respiro tranquillo e il morbido corpo che riposava in un’attesa profonda e pigra, ma non potevo sopportare il suo odore, era un odore denso, da animale cristiano, c’era l’odore delle sacristie e dei cani randagi e anche l’odore delle tuberose in una stanza calda.
«Come ti chiami?» dissi, ma la ragazza non capì. Stavo per ripetere la domanda, quando un soldato (chi poteva essere se non un soldato ubriaco?) batté alla porta del cortile e una voce aspra gridò alcune parole. Mi levai a fatica. La ragazza, senza muoversi, rispose prontamente e anche l’altra intervenne e gridò a sua volta; voleva dire alla compagna di non fare entrare l’importuno, ma gridava come se già la stanza fosse invasa. L’uomo che stava fuori urlò, poi dette uno scossone alla porta e infine sentimmo che si allontanava. La ragazza allora mi afferrò per un braccio e mi trasse a sé, facendomi cadere sul letto. Ma subito la respinsi e così la lasciai, sorpresa e già svestita, mentre raggiungevo la porta. Dissi al maggiore che uscivo un momento e corsi verso la piazza. Mi fermai davanti alla chiesa, mi era parso di sentire dei lamenti. Avvicinandomi alle baracche messe ai lati dell’ingresso, nel buio intravidi un groviglio di cenci e di carni, erano parecchi indigeni là ammucchiati, si lamentavano, ma fiocamente, come se fossero stanchi anche loro di quelle grida che non trovavano eco. Vedendo che mi avvicinavo, qualcuno tacque, aspettando. Erano mendicanti, immagino. Gettai loro qualche moneta e ripresi la corsa verso il comando tappa. Là avrei atteso l’alba e il primo camion diretto al fiume.
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