Quando “lo spazio delle donne” è claustrofobico produce allucinazioni. Ma anche quando è il palcoscenico della Scala di Milano (o del Metropolitan di New York) non scherza. Ne sa qualcosa la “divina”, violenta, fragile Maria Anna Cecilia Sofia Kalogeropoulos, nata il 2 dicembre di cento anni fa e diventata a tredici anni mito vivente nella storia della musica. Si chiamava, in arte, Maria Callas.

Di lotta, di corpi, di spazi (e di classe), parla un libro su di lei appena uscito per nottetempo: con una bella e necessaria introduzione di Irene Soave, riporta gli articoli che Camilla Cederna aveva scritto sulla cantante e attrice. Sono pezzi di costume, ben scritti, alcuni brillanti: indimenticabile quel «vasto occhio egeo» con cui la descrive sontuosa, avvolta nel suo mantello di velluto rosso, dopo il primo atto di Medea (dicembre 1953) che l’avrebbe consacrata.

Si capisce che, al sortilegio che la maga greca aveva scagliato sul suo pubblico, Cederna non è affatto immune. Dalle prime prove di canto in compagnia di due uccellini (il canto, per lei, come un «gioco ornitologico»), alle bambole regalate per la sua primissima performance a tredici anni e gettate via dall’oblò della nave su cui, dall’America, sarebbe arrivata finalmente a Patrasso, per una nuova e più seria fase della sua formazione, Cederna racconta un mito, e sembra raccontarlo anche a sé stessa: «Si vede che in questo momento la gente aveva bisogno di un mito, un mostro sacro mancava, ed ecco questa farfalla uscita dal bruco che in più canta come un angelo, o come un’invasata, col cuore o con le viscere, secondo il grado di delirio di chi l’ascolta».

Il tormento

Però sono pezzi che fanno anche del male (ne avranno fatto pure a Callas). Perché in queste pagine si registra un tormento, che torna a ossessionare Cederna come i suoni allitteranti e le anafore di cui si serve: «Maria Meneghini Callas e la sua collezione di gioielli. Maria Meneghini Callas a Lacco Ameno. Maria Meneghini Callas alla ribalta, sommersa da una pioggia di fiori. Maria Meneghini Callas prima e dopo la cura. Maria Meneghini Callas con la Maxwell a Venezia. Maria Meneghini Callas prova un abito di faille mauve. Nuovo incidente al tenore. Maria Meneghini Callas dice che non è vero» (Discorsi in M, in Appendice, pag. 97).

La “divina” dipinta come un diavolo, un’ossessa, una tigre, ma anche una colomba trasformista; un’isterica, preda di bizze e attacchi d’ira, collassi, vampate di rabbia su cui Cederna ironizza: come quando schiere di dottori la visitano e concludono, «(chi lo direbbe?)» commenta, «che soffre di nevrastenia acuta». O ancora: «monomaniaca», «diavolo con istinti diabolici», come se non bastasse.

La sua fame di successo, d’adulazione, anzi no, d’amore, è sempre osservata in obliquo, con sospetto e riprovazione, allo stesso modo della fame fisica: di dolci al miele, steak à la tartare, patate. “Mi ricordava una bistecca” era il titolo provvisorio della sua rubrica di costume sull’Europeo dedicata anche, tra gli altri, proprio a Callas.

I pezzi di “Donna Coraggio” (come veniva chiamata Cederna) sembrano insomma difendersi dietro un insistito sarcasmo dal tormento(ne) che lei stessa contribuiva a raccontare: e infatti, più che parlare dell’eccezionalità canora di Callas, spesso Cederna finisce per riportare notizia quasi solo delle liti con altri interpreti, sul palco e dietro le quinte; dei suoi amori mancati. Della sua crisi vocale non parla direttamente: la descrive attraverso le parole della stessa cantante, che a sua volta si rapporta a sé stessa come a un altro corpo, uno strumento a corde, un Altro da osservare con distacco (come in seguito dirà: «Non riesco a capire cosa mi è capitato, per tutta la sera ho sentito cantare un’altra donna»); come se appunto tanto Callas quanto Cederna non volessero avvicinarcisi troppo perché quel mostro sacro fa paura. «Medea è il suo personaggio, si vede che è una donna capace di odiare», si legge infatti tra virgolette.

Profondità siderali

Ogni riga degli articoli di Cederna è l’esaltazione di questo mito e, insieme, il suo riflesso in uno specchio deformante. Come la madre di Callas che, alla sua nascita, la ignorò per quattro giorni perché era troppo femmina rispetto ai suoi desideri e, soprattutto, brutta, grassa «come un agnello», affamata di salsicce già all’età di tre mesi, e che poi la torturò (psicologicamente) per tutto il resto della sua esistenza. Se ne parla in questi termini Cederna, che altrove si mostra anche una grande estimatrice di Callas, che cosa avrà pensato lei di sé stessa?

Non una parola su quelle profondità siderali che Pasolini, in una delle poesie dedicate a Callas, definisce «vuoto del cosmo», a metà strada tra superbia e umiltà: «Ma il debole sorriso sfuggente/ non è di timidezza/ è lo sgomento, più terribile, ben più terribile/ di avere un corpo separato, nei regni dell’essere – se è una colpa/ se non è che un incidente:/ ma al posto dell’Altro/ per me c’è un vuoto nel cosmo/ un vuoto nel cosmo/ e da là tu canti» (Timor di me?, in Trasumanar e organizzar, 1971).

Perfidia letteraria

Per non parlare della «perfidia letteraria» (come dice giustamente Soave) cui Cederna ricorre quando si inoltra in un territorio ben più scivoloso, che ogni donna conosce bene, e che riguarda il corpo: in particolare, la metamorfosi miracolosa a seguito del suo dimagrimento. «E un giorno Pantagruel cominciò a cantare», scrive Cederna. La chiama «figliolona», le appiccica un corpo di cui sembra giusto rabbrividire, come fa la madre quando la reincontra a New York e la trova ingrassata: «Era grassa, era felice, ma non le stava niente bene, adesso che è dimagrita invece sta benissimo».

Quando avanza l’ipotesi del verme solitario (che alcuni, come non tralascia di ripetere Cederna, sostengono che Callas si sia impiantata da sola), il suo commento sferzante è: «Capito cosa mai la rodeva dentro?», a partire dal quale, poi, torna a ironizzare sulla sua fame di notorietà: «Adesso la Callas è rôsa dal baco mondano». E se è consapevole che «sono scherzi questi che la natura di solito non perdona», replica secca: «Sarà, ma ora è felice».

La storia del verme solitario ha, certo, del fascino. A questa «molesta presenza» si ispira, per esempio, Antonio Moresco per il suo allucinato Duetto (questo il titolo; si trova nella raccolta Merda e luce, Effigie Edizioni, 2007) tra Maria Callas e il suo doppio, cioè la sua tenia. Qui, il corpo della “divina” è invasato, gravido di una forza che è però una «vocina infantile» («una voce che viene prima ancora che ci sia la voce») e che, tuttavia, con un’intuizione ben più profonda di quelle che lasciano soffocate le frasi di Cederna, Moresco fa nascere e morire nel segno del dolore di figlia e madre insieme, per volontà, insomma (a metà tra narcisismo e masochismo) della stessa Callas. La tenia è la sua ombra, il frutto della sua feconda paura di non meritarsi la sua «vera» voce; di non essere nessuno, nemmeno un corpo ospitale. Del resto, è così che la descrivevano i giornali.

Perché è vero che, leggendo queste pagine di Cederna, si ha quasi l’impressione che il mito di Callas stia tutto nel suo mistero: non tanto della voce, delle sue improvvise note appena appena sgraziate, della sua lotta contro la tradizione operistica o della regalità terribile delle sue interpretazioni (come cantante ma anche come straordinaria attrice: avete mai visto Medea di Pasolini?), quanto del suo inaspettato dimagrimento nell’ottobre del 1954. Anche perché, di tutto il resto, la stampa, Cederna stessa, le colleghe e i colleghi, l’opinione pubblica sembra conoscere già ogni minimo dettaglio. «Dicono che con la sua famiglia è stata durissima. Dicono che ha dato un calcio al tenore. Dicono che ha fatto una scena al direttore. Dicono che pesta i piedi» (Discorsi in M), ripete come in una cantilena crudele Cederna; e la cantante Maria Callas intanto scompare, simulacro di tutte queste narrazioni.

Un corpo è solo un corpo?

Il rischio di un ripiegamento vittimistico e, in fin dei conti, consolatorio è senz’altro alto quando si parla di corpi e solo di corpi. Ma quand’è che un corpo è solo un corpo? Quand’è che non è anche metafora, molteplicità, finzione, appartenenza e sradicamento? Perché, nei testi di Cederna, Callas è tanto visibile nella sua corporeità (prima sbagliata, poi giusta, finalmente languida) quanto un «fuori campo»: è un gigantesco elefante nella stanza (Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Einaudi, 2022).

Un corpo è anche lo spazio che quel corpo occupa nel mondo, prima di tutto: se non occupa spazio, se è un «fuori campo», allora il corpo coincide con la lotta per guadagnarselo. In effetti, pubblicare questo libro ha il grande pregio di farci guardare indietro: è, come dice Soave, un «documento». Cederna ci aiuta a capire questo: che le parole sono sempre importanti e che Maria Callas non si nasce, lo si diventa; anche con un bel po’ di sforzi. Domani si festeggiano i suoi cento anni, forse ne è valsa la pena.

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