Madre croata, nonna montenegrina, padre americano, ha rinunciato agli studi ad Harvard per fare l’allenatore di basket. Un irregolare, un personaggio da culto che ha portato per la prima volta una squadra tedesca ai play-off di Eurolega, ha rilanciato il Partizan Belgrado, ora sta incantando in Lituania. Ma da 11 anni non lo chiama nessuno in serie A
Era il 30 dicembre scorso quando i dirigenti dello Žalgiris Kaunas si decisero a dare una svolta al progetto tecnico della squadra. Così dopo la sesta partita persa consecutiva in Eurolega, licenziarono l’allenatore Kazys Maksvytis dall’incarico, mandandolo via da un team che nella coppa internazionale non rappresenta solo la propria città, ma l’intera Lituania, dove il basket è una vera e propria religione. Per cercare di risalire più possibile dai bassifondi del penultimo posto, con 12 sconfitte in 17 giornate, al suo posto e con un budget fra i più bassi del torneo venne chiamato a sorpresa un tecnico fermo da inizio stagione, uno dei migliori italiani, in una categoria che può contare su elementi di livello assoluto. Andrea Trinchieri ha poco da invidiare ai più celebrati fra loro ed è una persona che per situazioni di questo genere sembra fatto con il pennello.
La mescolanza delle origini
Madre croata, nonna montenegrina, padre americano, nonno italiano, diplomatico sposato a una donna americana, il primo incontro dei due genitori a Londra: Trinchieri è un melting pot di culture e influenze che lo ha aiutato tantissimo nella carriera da allenatore iniziata dal basso, dalla gavetta, preferita alla comodità di un futuro già scritto con un posto riservato ad Harvard a cui invece rinunciò, nonostante la famiglia fosse di avviso diverso.
Per seguire la sua passione, la pallacanestro, dove aveva iniziato a giocare come playmaker dall’ottima visione e dalla spiccata leadership, doti che lo hanno portato quasi naturalmente alla transizione verso la carriera da allenatore in età giovanissima. Rimanendo però per diverso tempo nei campionati minori, nei paraggi della Milano in cui è cresciuto, a sgolarsi sui campi di Promozione e Serie D, vinte con il San Pio X a fine anni ‘90. A 30 anni, quando a un’età simile i vari Messina o Scariolo erano già capo allenatore nella serie A italiana, per Trinchieri arrivò sì la chiamata dell’Olimpia Milano, ma solo come coach delle giovanili e assistente in prima squadra, un club che non gli darà mai i gradi da capo e che lui lascerà nel 2004: per rituffarsi nelle categorie inferiori e iniziare così la sua scalata, partendo dalla Soresina in Serie B chiamato dall’istrionico Secondo Triboldi, convinto da quella brillantezza e dal forte temperamento.
Due caratteristiche che renderanno col tempo Trinchieri un personaggio di culto sia per il basket duro in difesa e intelligente in attacco, sia per le capacità da comunicatore, tanto con l’esterno quanto con i ragazzi delle sue squadre, che iniziano puntualmente a esprimere il massimo delle proprie possibilità e oltre nelle varie tappe: dalla Vanoli portata dalla B in A2, con due Coppe Italia di categoria, alla Cantù con cui raggiunge una finale scudetto, vince una Supercoppa e per due anni viene eletto miglior coach della stagione. Una escalation che lo portò a scoprire giocatori atipici e spesso scartati da altri lidi proprio per questo, rilanciati dalla cura Trinchieri ai vertici della pallacanestro europea: gente come Kyle Hines, Keith Langford, Vlado Micov, Brad Wanamaker, Daniel Theis, Nicolò Melli e Daniel Hackett.
Il richiamo dell’estero
Non tutti sui campi italiani, però: la sua curiosità intellettuale lo ha portato a mettersi alla prova all’estero sin dal 2013, passando per Kazan (vittoria della Coppa di Russia) prima del periodo in Germania al Brose Bamberg, dove ha guidato il club a tre scudetti consecutivi dominando il più titolato Bayern Monaco, a cui poi finirà (dopo averlo dipinto a suo tempo come nemico) e portando per la prima volta una squadra tedesca a un playoff di Eurolega, in coda a un biennio dedicato a riportare in auge un club storico ma in crisi come il Partizan di Belgrado.
Ha fatto un continuo lavoro su sé stesso, smussando via via i lati del carattere più focosi, sfornando continuamente nuove idee legate all’evoluzione del gioco, continuando a pretendere molto dai ragazzi ma trovando sempre le chiavi per parlar loro in maniera efficiente, tirandone fuori il meglio, relazionandosi nella maniera più consona alle nuove generazioni, finendo per essere amato nei posti in cui è stato e regalando diverse perle nelle interviste, avendo ben in mente il valore delle dichiarazioni spesso arricchite da citazioni di Churchill, mai banali, con la consapevolezza delle tecniche migliori per renderle efficaci.
«Rispetto a un allenatore che parla l'inglese correttamente, ho il vantaggio di usare le parole come le intendono i giocatori. Così faccio breccia, trasmetto passione», dice.
Non sarà mai il coach più convenzionale. Non ci ha mai tenuto, anzi, la sua è parsa quasi sempre una sfida ai cliché radicati della categoria. Ma è difficile oggi trovarne tanti migliori di lui in Europa. La sua assoluta eccezionalità nel panorama della pallacanestro italiana cozza sempre di più con la sua assenza dal campionato che ormai dura da 11 anni. Se lo godono all’estero, allo Zalgiris ha vinto le prime 8 partite su 14 partite e adesso possono perfino immaginare un ingresso in extremis nella fase finale di Eurolega. Per quella che sarebbe l’ennesima impresa da underdog.
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