Sui social e in televisione è una sfida continua per apparire impegnati e con un’opinione su tutto. Ammettere i propri limiti rischia allora di diventare la vera dote dei nostri tempi
Sembra di no, ma ogni tanto mi chiedo se ci sia un limite alle idiozie che posso proporre su queste pagine. Mi rispondo che la leggerezza fa bene, che va preservata, che non è che possiamo essere tutti intelligenti. A volte la cretina serve, fa colore.
Cerco, per quanto possibile, di essere onesta con me stessa e con gli altri: sono inattrezzata ad affrontare gran parte dei temi che hanno una reale importanza nel mondo fuori da casa mia, non sono esperta di niente e sono troppo povera per avere dei princìpi, non abbastanza per combattere in nome di qualcosa.
Quindi mi attengo alle mie competenze (che come dicevo sono molto vicine allo zero), mi informo per i fatti miei con la testa che pulsa nel tentativo di farmi un’opinione sensata, e poi continuo inesorabile a fare la parte del piattino del burro: un cazzillo piacevole, spesso graditissimo, ma di cui non c’è reale bisogno.
Ci ho pensato
Questa settimana ho pensato molto a quanto piattino del burro si possa essere mentre le immagini degli attacchi terroristici in Israele e dei bombardamenti nella striscia di Gaza ci scorrono davanti agli occhi da giorni.
Ci ho pensato al cinema mentre guardavo Io, Capitano di Matteo Garrone, mentre piangevo per tre quarti di film assimilando con fatica la storia di due giovani senegalesi (di finzione, ma molto reali) che decidono di partire per l’Italia affrontando un viaggio infernale, sentendomi due volte ridicola per quella commozione retta e per la mia totale incapacità di agire di conseguenza.
Ci ho pensato mentre leggevo il libro di Patrick Zaki sui due anni che ha passato in carcere in Egitto, vergognandomi intimamente per la totale mancanza di problemi che ha caratterizzato la mia intera esistenza.
Ci ho pensato mentre mi lamentavo dei cerotti per le vesciche che costano troppo, mentre scuotevo la testa di fronte alla mia dose quotidiana di annunci immobiliari per sceicchi, mentre mi affannavo sulle mie consegne di lavoro per mandare una fattura in più, mentre salivo su un taxi perché con le vesciche non avevo voglia di camminare, mentre davo due euro al signore africano che sta sempre davanti a casa mia, e che ciononostante non so come si chiami.
Ci ho pensato mentre mettevo a fuoco che in questo momento, mentre ci sono guerre e stermini e centri di detenzione che affliggono migliaia di persone che hanno solo avuto la sfortuna di nascere nel posto sbagliato, vivo in una tale condizione di privilegio che la notizia di questi giorni che più mina nel concreto la mia tranquillità è l’infestazione di cimici dei letti a Parigi.
Un problema di cimici
Ho concluso che forse è proprio questo il mio ruolo. Mentre i cuochi televisivi su Twitter si improvvisano esperti di geopolitica e l’internet intera si sente legittimata a dire la propria e a schierarsi su un conflitto su cui persino gli storici faticano a tirare delle linee nette, io mi sbugiardo, e di fronte al caos ammetto una scomoda verità, rivelandomi in tutta la mia piccolezza e alleviando i sensi di colpa altrui: sono sette giorni che faccio gli incubi sugli insetti.
Se avevamo dei dubbi che la nostra generazione fosse la più meritevole di derisione, dopo che abbiamo passato tre anni a parlare del Covid come di un trauma collettivo (trauma collettivo che ci ha visto stressatissimi sui nostri divani, mentre nasceva Disney+ e potevamo completare la regressione sfondandoci di cartoni animati della nostra infanzia dalla mattina alla sera), ecco ora una piaga che ci si addice ancora più perfettamente.
Nessuna pioggia di rane, niente cavallette, ma un modesto problema di salute pubblica che ci costringe a vivere nel terrore più grande di tutti, quello di affrontare spese non previste. Abbiamo i soldi contati, li mettiamo da parte a stento per fare le vacanze e comprare le imprescindibili candele profumate: la disinfestazione o un nuovo Malm matrimoniale non sono voci che siamo pronti a mettere a bilancio.
Il fatto che parta tutto da Parigi rende la vicenda ancora più filologica: dove potevamo appestarci se non nella capitale mondiale della moda? Cosa c’è di più chic di questo? Che mangino brioches, che brucino i vestiti pulciosi.
Mentre mi gratto per punture immaginarie, controllo ossessivamente il mio materasso pur non andando a Parigi da un anno, e guardo con sospetto ai miei vicini di metropolitana, chiedendomi con frustrazione chi di loro sia appena tornato dalla Francia, mi struggo per la mia inadeguatezza e chiedo scusa al vento per essere sempre il solito piattino del burro.
© Riproduzione riservata