- I pontefici ne hanno più di uno. Al principale, in genere stabile, se ne affianca un secondo non fisso. Bergoglio ha molto ridotto il loro ruolo e dopo un certo periodo. tempo li ha cambiati, per ridurre l’inevitabile concentrazione di potere nelle loro mani, con la conseguenza di perdere un filtro che spesso risulta utile.
- Don Stanislao restò con Wojtyla lui per tutti i ventisette anni di pontificato. Fu ordinato prima vescovo e poi arcivescovo: una decisione molto criticata, perché in tempi recenti a nessun segretario era toccato tale privilegio. Quello di papa Luciani, Diego Lorenzi, rimase un semplice religioso. Controversa fu la figura di Pascalina Lehnert, accanto a Pio XII per quarant’anni.
- La Frankfurter Allgemeine Zeitung ha ricostruito invece i difficili rapporti tra Francesco e Georg Gänswein, segretario di Ratzinger per un ventennio.
Morto Benedetto XVI, sui media sono rimbalzate ipotesi bizzarre sulla sorte dell’arcivescovo Georg Gänswein, segretario di Ratzinger per un ventennio. Quando si è saputo dell’allontanamento dal Vaticano del prelato, più accurato è stato l’articolo di Matthias Rüb sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. A sorpresa il corrispondente della più autorevole testata tedesca – che Ratzinger leggeva sempre – ha preso le mosse dalla visita che il 15 settembre 2013 il segretario del papa ormai emerito aveva fatto a Urbisaglia.
Piccolo centro fra Tolentino e Macerata, l’antica Urbs Salvia è una diocesi soppressa, il cui titolo è stato assegnato a Gänswein quando papa Ratzinger, poche settimane prima della rinuncia, lo aveva nominato prefetto della Casa pontificia, ordinandolo personalmente arcivescovo: un modo per ringraziarlo e assicurargli un ruolo dignitoso. Dieci anni fa, quel giorno di fine estate il prelato tedesco celebrando messa a Urbisaglia aveva commentato la parabola del figlio prodigo, che nel vangelo di Luca lascia la casa paterna, per poi pentirsi, tornare a casa ed essere perdonato dal padre.
Ma papa Francesco non è stato tenero con «il figlio prodigo di Urbisaglia», come ha titolato la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Sembra proprio di no, almeno «per il momento»: così recita il comunicato della Santa sede con cui il 15 giugno è stato reso pubblico che l’arcivescovo Gänswein aveva concluso l’incarico di prefetto il 28 febbraio – esattamente dieci anni dopo la rinuncia di Benedetto XVI – e che il pontefice ne aveva «disposto» il rientro in Germania dal 1° luglio, appunto «per il momento».
Bergoglio ha deciso di rimandare Gänswein nella «diocesi di origine», Friburgo, senza assegnargli un nuovo compito, benché il prelato quasi sessantasettenne sia ancora lontano dall’età del pensionamento, fissato per i vescovi cattolici a 75 anni. Sede importante, la cattedra episcopale di Friburgo è occupata dall’arcivescovo Stephan Burger, successore di Robert Zollitsch, esponente progressista (e per sei anni presidente) della conferenza episcopale tedesca, ora travolto da una cattiva gestione degli abusi e che per questo ha rinunciato al privilegio di essere sepolto nella cattedrale.
La soluzione escogitata dal pontefice è per diversi aspetti inusuale, frutto probabilmente delle incomprensioni tra Francesco e il segretario del predecessore. Come documenta altrettanto inusualmente il libro scritto da Gänswein con Saverio Gaeta (Nient’altro che la verità, Piemme) e pubblicato poco dopo i funerali di Benedetto XVI. Una testimonianza certo intempestiva e troppo esplicita: nel sottolineare la differenza, del resto evidente, tra i due papi, ma anche nelle critiche a Francesco – che nel 2020 lo aveva «dimezzato» togliendogli le funzioni di prefetto della Casa pontificia ma conservandogli la carica – e infine nel racconto del ventennio vaticano di cui il prelato tedesco è stato spettatore privilegiato e in parte protagonista.
Scritto ovviamente dal punto di vista dell’arcivescovo, con aspri giudizi e reticenze, il libro ha avuto successo ed è interessante, ma nell’ambiente vaticano a diverse persone non è piaciuto. Così come nel 2003 a molti non piacque la decisione del settantaseienne Ratzinger – che era prefetto dell’antico Sant’Uffizio e decano del collegio cardinalizio – di nominare suo segretario Gänswein, canonista di vedute considerate troppo conservatrici, al posto del connazionale Josef Clemens, nominato segretario del Pontificio consiglio per i laici e vescovo.
Dopo l’elezione in conclave del cardinale bavarese, le critiche al «George Clooney di San Pietro» – così era definito il segretario papale su una copertina di Vanity Fair – si moltiplicarono, in parallelo a quelle riservate al pontefice, divenuto il «pastore tedesco». Sui media filtrarono notizie su dissapori di Gänswein con altri collaboratori di Ratzinger: con lo stesso vescovo Clemens e con una laica, Ingrid Stampa, governante e segretaria che aveva preso il posto della sorella del cardinale morta nel 1991, ma poi anche con curiali di spicco, compreso il segretario di stato Bertone.
La situazione si fece pesante nella primavera del 2012 con lo stillicidio di documenti riservati che dalla segreteria particolare del papa finivano sui media, soprattutto testate italiane. Responsabile era Paolo Gabriele, detto Paoletto, «aiutante di camera» del papa, cioè il suo maggiordomo, che incredibilmente aveva una scrivania accanto a quella di Gänswein. Questi, sentendosi responsabile di non aver vigilato, offrì le sue dimissioni, ma Benedetto XVI le respinse.
Laico esaltato e ingenuo, Paoletto era stato strumentalizzato nel contesto delle opposizioni a Benedetto XVI, un contesto che non è stato del tutto chiarito. Processato e condannato dal tribunale vaticano, l’uomo – un capro espiatorio, riassunto di fatto dal Vaticano in altro ruolo e morto prematuramente nel 2020 per una grave malattia – fu perdonato dal papa che lo incontrò poco prima della rinuncia. L’episodio era il culmine di una situazione torbida e allarmante che indusse Ratzinger a costituire una commissione d’inchiesta. Questa era composta da tre cardinali ultraottantenni che riferirono direttamente al papa, e solo a lui, le conclusioni, poi consegnate da Benedetto XVI al successore durante il loro primo incontro a Castel Gandolfo e mai rese pubbliche.
Dopo la rinuncia di Ratzinger, nel decennio di coabitazione con papa Francesco la situazione si è fatta più complicata per il segretario di Benedetto XVI, rimasto prefetto della Casa pontificia e impacciato nel ruolo del goldoniano «servitore di due padroni». Diversa è stata la sorte del secondo segretario di papa Ratzinger, il maltese Alfred Xuereb, autore di un diario senza soprassalti con foto inedite (I miei giorni con Benedetto XVI, San Paolo): passato nella segreteria di Francesco, poi incaricato di seguire le riforme economiche, Xuereb dal 2018 è arcivescovo e ambasciatore papale in Corea e Mongolia.
I papi hanno più di un segretario: al principale, in genere stabile, se ne affianca infatti un secondo, non fisso. Bergoglio ha molto ridotto il loro ruolo – nei viaggi, per esempio, non è accompagnato dal primo segretario, come avveniva con i predecessori – e dopo un certo tempo li ha cambiati. Così Xuereb, presto sostituito come secondo dall’egiziano Yoannis Lahzi Gaid e quindi dall’italiano Fabio Salerno, aveva affiancato l’argentino Fabián Pedacchio Leaniz, a cui è succeduto l’uruguaiano Gonzalo Gabriel Aemilius Berezan.
Scopo evidente degli avvicendamenti decisi da papa Francesco è quello di ridurre l’inevitabile potere dei segretari (soprattutto del principale), ma con la conseguenza di perdere un filtro che spesso risulta utile. L’esempio più recente dell’abuso di questo potere – un ruolo unico per la vicinanza al pontefice e che dunque causa, una volta morto il papa, il loro allontanamento dal Vaticano – non è però Gänswein, bensì Stanisław Dziwisz, «don Stanislao», l’onnipotente e controverso segretario di Giovanni Paolo II.
Dal 1966 segretario personale dell’arcivescovo Wojtyła, don Stanislao restò con lui per tutti i ventisette anni di pontificato. Nel 1998 il papa lo ordinò vescovo e nel 2003 arcivescovo: una decisione molto criticata, perché in tempi recenti nessun segretario papale in carica era stato fatto vescovo. Dziwisz prese allora sempre più potere, facilitato anche dal declino del pontefice. Poi, solo due mesi dopo la morte del papa polacco, Benedetto XVI assegnò a don Stanislao la storica sede di Cracovia – che era stata di Wojtyła – e l’anno successivo lo creò cardinale.
Semplice religioso è invece sempre rimasto Diego Lorenzi, segretario di papa Luciani, morto dopo un mese di pontificato. Pasquale Macchi e Loris Capovilla, a fianco rispettivamente di Paolo VI e di Giovanni XXIII, furono segretari anch’essi criticati, peraltro fedelissimi ai due papi del concilio e molto efficaci nel promuovere la loro memoria. Solo più tardi infatti i due preti divennero arcivescovi, e Capovilla – decisivo nella costruzione dell’immagine del «papa buono» già durante il pontificato giovanneo – fu addirittura creato cardinale.
Non fece ovviamente carriera perché donna suor Pascalina Lehnert, la potente e altrettanto controversa segretaria del papa più discusso del secolo scorso, Pio XII. Ma la vicenda di questa energica religiosa tedesca – che fu a fianco di Pacelli per quarant’anni – appartiene piuttosto alla storia delle donne dei papi.
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