- Le due parole che prometto di non scrivere nei prossimi dodici mesi sono “pace” e “libertà”.
- Lo so, le cose che le due parole designano sono come la salute, diventano importanti solo quando vengono a mancare; ma il discorso che le usa, in quanto motore di affetti, è ormai falsificante al punto che tutti se ne possono impadronire svendendolo al mercato dell’ovvio.
- La prima soprattutto, di questi tempi, non può non essere la protagonista della cronaca: siamo tutti in attesa spasmodica di qualche spiraglio di pace, auspichiamo un mediatore e speriamo in una conferenza di pace il più presto possibile.
Frecciarossa Roma-Milano, più o meno all’altezza di Orvieto; case coloniche dal finestrino, dolci colline, tempo grigio. Nel mio scompartimento sono in corso tre call: tutte power point, «abbiamo chiuso a quaranta», brochure, «non siamo strutturati per questo trend» eccetera.
Ho in testa l’immagine di due nastri trasportatori che slittano l’uno sull’altro senza toccarsi, senza che politica ed economia riescano a trovare dei perni per collegare i due inconciliabili orizzonti.
Paesini raggomitolati sotto la pioggia, dove probabilmente vivono contadini umbri di una certa età o extracomunitari di prima e seconda generazione; integrazione difficile, tradimenti culturali e perdita delle radici.
Diversità italiana involontaria e silenziosa, non quella sbandierata nelle manifestazioni arcobaleno.
Ma non mi interessa la lamentazione (retorica e tutta da dimostrare) sul gap tra campagna e terziario avanzato, né sulla distanza della narrazione mainstream dalla concreta quotidianità delle persone.
Vorrei limitarmi, come proposito per l’anno nuovo o diciamo come fioretto, a impormi una moratoria su due specifiche parole che sono regine della retorica odierna più diffusa e popolare.
Le due parole che prometto di non scrivere nei prossimi dodici mesi sono “pace” e “libertà”.
Il mercato dell’ovvio
Lo so, le cose che le due parole designano sono come la salute, diventano importanti solo quando vengono a mancare; ma il discorso che le usa, in quanto motore di affetti, è ormai falsificante al punto che tutti se ne possono impadronire svendendolo al mercato dell’ovvio.
La prima soprattutto, di questi tempi, non può non essere la protagonista della cronaca: siamo tutti in attesa spasmodica di qualche spiraglio di pace, auspichiamo un mediatore e speriamo in una conferenza di pace il più presto possibile.
Sarebbe bello (ma non succederà) che i primi incontri tra le parti in conflitto, comprese quelle che la guerra non l’hanno dichiarata, si intitolassero “conferenza per il riequilibrio del quadro geopolitico”, e che nelle prime sedute si evitasse di parlare di Ucraina.
Il calcolo di costi e benefici, da una parte e dall’altra, dovrebbe tener conto anche di entità immateriali come l’odio e l’amor di patria.
La ragione non è solo razionalità, ammoniva già Kant nel Progetto per una pace perpetua, perché la ragione comprende i valori etici universali che trascendono gli interessi particolari, quindi comprende i sentimenti che devono essere accolti e superati, non trascurati e buttati in un angolo.
Se al sostantivo “pace” aggiungiamo l’aggettivo “giusta”, ecco che vuol dire “pace come la intendiamo noi”; alla “giustizia” della pace, secondo Kant, dovevano utopisticamente pensare i filosofi; ora ci dovrebbero pensare gli organismi internazionali con l’appoggio di tutti gli uomini di buona volontà.
Che non può essere una dizione religiosa: tutte le religioni (compresa la nostra, perché non mi risulta che il Vecchio Testamento sia stato abolito) conoscono un Dio degli eserciti capace di terribili crudeltà contro i nemici.
Forse all’ingombrante parola “pace” si dovrebbe sostituire il più umile concetto di “accordo provvisorio che non scontenti le parti al punto da costringerle subito a riarmarsi”.
Che facciamo della nostra libertà?
La seconda parola di cui si abusa è “libertà”: una parola passepartout a cui tutti fanno ricorso.
Gli ayatollah iraniani invocano per le donne la libertà di vivere la loro istintiva pudicizia senza i plagi ammaliatori delle potenze straniere asservite al demonio; presentano l’impiccagione di chi “ha dichiarato guerra a Dio” come una paradossale operazione di pace.
Personalmente provo un’ammirazione sconfinata verso chi accetta di essere torturato e morire per difendere le libertà più elementari (libero accesso all’istruzione, libertà di pensiero e di parola, libertà di amare) e sento tutta l’indecenza di ammirare chi combatte per la libertà, ma standomene al calduccio.
La sola cosa che posso fare, e che forse anche altri dovrebbero fare, è chiedermi: che ne abbiamo fatto della nostra libertà? E’ libero, per esempio, chi ogni giorno deve adeguare i propri gesti e le proprie parole ai gusti dei più?
Chiedere agli influencer in carriera, o ai forzati di Tiktok, se a forza di cercare like non si stanno abituando ad autocensurarsi e ad adeguare al conformismo (compreso il conformismo dell’eccentrico) anche i pensieri.
E’ libero chi, per riuscire ad aver stima di se stesso, è costretto a seguire modelli eteroimposti?
E’ libero chi, in nome di una illimitata espansione dei diritti individuali, trascura e disprezza i doveri collettivi?
E’ libero chi consuma passivamente tecnologia senza sapere chi la produce e chi ne trae profitto, e per quali scopi ?
E’ libero, infine, chi è prigioniero di logiche binarie a partire dalla certezza che la propria cultura sia la migliore, quindi o con me o contro di me, faccia feroce senza sconti, molti nemici molto onore?
I ragazzi che lottano, in Iran o altrove, per il diritto di “vivere all’occidentale”, e di ascoltare la musica che vogliono e di amare chi gli pare, hanno anche il diritto di avere risposte alle domande di cui sopra.
Che c’entra, direte voi, tutta questa panoplia di dubbi con la pioggia sulla bella campagna umbra?
E’ che in un tempo sospeso come quello del treno mi è apparso, più chiaro che mai, che la pioggia e la natura sono i nostri giudici.
La retorica serve a non vedere, a coprire di parole ciò che vogliamo passare sotto silenzio.
Decide la natura
In treno stavo leggendo Il giro del mondo nell’Antropocene, scritto da Telmo Pievani e Mauro Varotto (Cortina Editore); non un libro di fantacatastrofi ma un discorso ragionevole e documentato sulle trasformazioni irreversibili a cui andrà incontro il Pianeta se il riscaldamento globale proseguirà al ritmo di ora.
E sulle pandemie che si susseguiranno a ritmo sempre più accelerato.
Solo quarant’anni prima del manifesto kantiano sulla pace perpetua, Voltaire reagiva al terremoto di Lisbona con una rispettosa presa di distanza dalla religione (“rispetto Dio, ma amo l’universo”).
Così finiva l’illuminismo, con una presa d’atto che di fronte allo strapotere della natura agli uomini non resta che opporre una forma di solidarietà universale.
Solidarietà guidata dalla paura, certo: non è stata forse l’emergenza, da sempre, il vero collante che ha costretto gli uomini ad allearsi e a metter da parte le divisioni ? Con la differenza che ora le calamità naturali ce le stiamo procurando da soli.
La nostra presidente del Consiglio proviene da una storia di destra parlamentare e con molta probabilità riuscirà a far approvare leggi di destra, tra cui alcune insopportabili; in politica estera, dovrà barcamenarsi tra le proprie simpatie sovraniste e il sostegno agli Usa nel quadrante geopolitico; forse dovrà rivedere le proprie posizioni in materia di prevenzione sanitaria perché dalla Cina c’è il caso che ricominci la giostra delle varianti Covid.
L’opposizione è possibile su tutti questi piani, la solidarietà con tutti coloro che rischiano prigione e vita per migrare è sacrosanta, ma quel che ormai non possiamo permetterci è confondere i piani e le priorità.
Prioritaria è la rinuncia all’arroganza occidentale di considerarci padroni del mondo e della verità; prioritario è discutere seriamente dei princìpi universali, magari trovando in culture considerate marginali degli utili suggerimenti e delle utili integrazioni; prioritario è superare gli steccati più stupidi, convenire che il pericolo dell’estinzione di specie è un dato politico fondamentale.
La contrapposizione anche aspra è il sale della convivenza, purché il muro contro muro non diventi un fine identitario invece che un mezzo.
Non riesco a pensare a libertà e pace se non come ad aiuti per trovare un po’ di luce dove apparentemente dominano le tenebre; sapendo che non siamo liberi e che non avremo pace mai, ma senza profanare queste due illusioni nominandole invano.
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