- Nell’edizione 2022 della conferenza Bilderberg che si è tenuta dal 2 a 5 giugno a Washington, dopo due anni di vuoto a causa Covid, l’argomento è stato praticamente uno solo: la guerra in Ucraina e le sue conseguenze su tutto il resto, dalla regione dell’indo-pacifico alla transizione ecologica.
- In un grande hotel di Washington, affacciato sul fiume Potomac e a pochi minuti dal celebre obelisco, nel weekend si sono riuniti e confrontati tutti i protagonisti della reazione occidentale alla Russia.
- Difficile pensare a una platea più informata sulla crisi. Eppure, dopo tre giorni a parlare di Ucraina, non c’è neppure una visione condivisa delle intenzioni di Putin, men che meno una strategia di azione nell’immediato. Siamo in una fase di incertezza radicale.
All’ultima conferenza Bilderberg prima della pandemia, il mondo sembrava ancora sotto controllo. Certo, nel 2019 c’erano molte sfide all’orizzonte, ma nessun mistero: la crisi climatica, l’ascesa della Cina, le implicazioni militari della corsa all’intelligenza artificiale, tutte cose complesse ma gestibili. La Russia era soltanto uno dei tanti argomenti di cui si discuteva a Montreaux, in Svizzera.
Nell’edizione 2022 che si è tenuta dal 2 a 5 giugno a Washington, dopo due anni di vuoto a causa Covid, l’argomento è stato praticamente uno solo: la guerra in Ucraina e le sue conseguenze su tutto il resto, dalla regione dell’indo-pacifico alla transizione ecologica.
Gli esagitati che sui social pensano che alle conferenze Bilderberg si decidano i destini del mondo sarebbero rimasti molto delusi dallo scoprire che l’unica cosa su cui concordavano tutti i partecipanti è che siamo entrati in una fase di incertezza radicale che rende impossibile prevedere il futuro, figuriamoci governarlo. Anzi, fare previsioni è perfino pericoloso.
Cos’è il Bilderberg
Il Bilderberg non è una vera organizzazione, ma un evento: c’è un comitato ristretto in carica per qualche anno che propone i partecipanti dei vari paesi (Europa e Stati Uniti), ma ha il solo scopo di favorire una discussione intensiva e informale. Molto intensiva, visto che comincia a colazione, alle 7 si sviluppa dalle 8 di mattina alle 18.30 in una grande sala conferenze dell’albergo che ospita l’evento, poi continua in modo più rilassato al cocktail prima di cena, e poi ancora a tavola e spesso anche dopo.
La segretezza che suscita tanti sospetti non è altro che solita Chatam House Rule che governa praticamente tutti gli eventi di questo genere: si possono usare le informazioni ma non attribuirle direttamente per evitare che invece che una discussione franca i tre giorni di evento si riducano a una sequenza di dichiarazioni da conferenza stampa. Non ci sono decisioni, niente documenti conclusivi, non è previsto che i dibattiti portino ad altro che a uno scambio di idee: tutti sono sullo stesso piano, niente staff, niente qualifiche, un badge al collo con nome e cognome e basta. Molto orizzontale.
In un grande hotel di Washington, affacciato sul fiume Potomac e a pochi minuti dal celebre obelisco, nel weekend si sono riuniti e confrontati tutti i protagonisti della reazione occidentale alla Russia: il consigliere per la sicurezza nazionale americano, Jake Sullivan, il direttore della Cia William Burns, molti amministratori delegati dell’energia che, per lavoro, hanno incontrato varie volte Vladimir Putin, politici di paesi in prima linea (dall’europarlamentare polacco Radoslaw Sikorski alla premier finlandese Sanna Marin), il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, e poi esponenti della comunità dell’intelligence americana ed europea. Oltre al veterano degli incontri Bilderberg, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, 99 anni ma ancora lucidissimo e attivo nel suggerire soluzioni e analisi.
Insomma, difficile pensare a una platea più informata sulla crisi. Eppure, dopo tre giorni a parlare di Ucraina, non c’è neppure una visione condivisa delle intenzioni di Putin, men che meno una strategia di azione nell’immediato. E per quanto riguarda il tempo lungo, stupisce l’assenza di punti fermi su cosa fare della Russia se e quando la guerra finirà: tenerla ai margini della comunità internazionale? Ricostruire i rapporti? Trasformarla in un grande stato fallito? Non si sa. O almeno non si sa ancora.
Questa incertezza radicale deriva anche dal modo in cui è stata gestita la fase iniziale della crisi. Nel rispetto delle regole del Bilderberg, si può ricostruire la sequenza degli eventi e le reazioni, incrociando le informazioni ma senza attribuirle i singoli dettagli a una specifica fonte.
Già a fine ottobre 2021 l’intelligence americana ha avuto la certezza che Putin stesse preparando l’invasione e che era questione urgente: nella visione del Cremlino c’era una finestra di opportunità, con il passaggio di leadership in Germania tra Angela Merkel e Olaf Scholz e la Francia di Emmanuel Macron impantanata nelle elezioni presidenziali.
A novembre la Cia si convince che il progetto di invasione è irreversibile e il presidente Joe Biden decide di rendere pubbliche alcune informazioni di intelligence, cosa assai rara, per cercare di segnalare anche ai partner europei quello che sta accadendo. In quelle settimane di fine 2021, però, sono in molti a sottostimare il pericolo: sia i servizi segreti europei che la comunità dell’intelligence di Washington.
L’errore si deve, per paradosso, a una analisi corretta: le truppe che Putin ammassa al confine con l’Ucraina a fine 2021 – fino a 190.000 uomini – non sono abbastanza per realizzare quello che pare essere il suo piano, cioè la sostituzione del governo Zelensky con un regime fantoccio putiniano dopo l’occupazione del paese. Sono troppo pochi, deve essere un bluff, pensano in tanti a Washington. E invece non era un bluff, soltanto la Cia ci aveva visto giusto, ma non è bastato a organizzare una reazione all’altezza.
Cosa vuole Putin
Sul passato la diagnosi è, quindi, abbastanza condivisa. Sul presente molto meno e sul futuro è buio fitto. Molti dei partecipanti al Bilderberg hanno incontrato Putin per lavoro: dai capi di governo ai capi azienda ai diplomatici.
L’unica cosa su cui sono tutti concordi è che il presidente della Federazione russa è tanto abile quanto ambiguo: lavora a ogni meeting con cura, sembra sempre preparatissimo, conosce le parole chiave per sedurre l’interlocutore («non è un caso che siano tutti uomini quelli che subiscono il fascino di questo approccio che fa dimenticare di avere davanti un criminale», osserva una politica donna). Ma non offre alcun indizio sulle sue vere intenzioni.
Analisti di intelligence, diplomatici e militari osservano che negli ultimi anni, e soprattutto durante il Covid, Putin ha ridotto sempre di più il gruppo ristretto di consiglieri dei quali si fida. Questo gli è costato cattive informazioni e scarsa lucidità decisionale.
Il momento di svolta della paranoia anti-occidentale di Putin è il 2011, con le proteste a San Pietroburgo (città del presidente) dopo le elezioni legislative: si convince che la Cia e l’Occidente tutto stanno sobillando i cittadini a ribellarsi contro di lui in nome della democrazia. Da allora diventa sempre più ostile.
Ma la guerra non è il prodotto della follia di una persona sola: il putinismo è un sistema di potere, che tanto gli americani quanto gli europei dell’est considerano in grado di sopravvivere a Putin, anche nel caso il presidente dovesse morire (l’argomento della sua salute è considerato marginale, dunque, e al Bilderberg non se ne parla quasi).
Le sanzioni internazionali riducono la torta della crescita economica da spartire tra oligarchi e politici corrotti, ma la scarsità renderà il sistema putinista ancor più rapace.
Nessuno ripone grandi speranze nel regime change: americani, Nato e militari sono troppo consapevoli dei rischi di una escalation, anche verso il nucleare, per valutare mosse avventate. Però non è neanche chiaro come convivere con una Russia a guida Putin o comunque putinista, anche se il cessate il fuoco dovesse arrivare a breve. Che succede se la Russia diventa un gigantesco stato fallito, sul modello di Afghanistan o Iraq? Meglio non scoprirlo.
Certo, a sentire la prospettiva ucraina o quella degli europei più vicini al fronte, non ci può essere un futuro con Putin al potere: ha dimostrato troppe volte di essere inaffidabile, ha violato il trattato di Budapest del 1994 sull’integrità territoriale dell’Ucraina, ha invaso la Georgia nel 2008, non ha rispettato gli accordi di Minsk dopo l’annessione (illegale) della Crimea nel 2014, ha mentito sull’intenzione di invadere ancora a gennaio. E secondo gli americani, il presidente russo non ha mai davvero cambiato obiettivo: vuole ancora rovesciare il governo di Volodymyr Zelensky e installare un prestanome russo a Kiev.
Come evitarlo? Le ipotesi che emergono al Bilderberg sono le più diverse: una clamorosa sconfitta militare sul Mar Nero, con l’affondamento di altri elementi significativi della flotta, potrebbe essere il tipo di evento che costringe Putin e la Russia ad ammettere la sconfitta sul campo (oltre a sbloccare il grano intrappolato nel porto di Odessa), oppure bisogna aspettare e vedere se e quanto si logora il consenso interno per effetto delle sanzioni.
Se si vuole parlare il linguaggio della forza, che il presidente russo tanto pratica, allora vanno mandate armi nucleari in Ucraina, così da non lasciare a Mosca il ricorso alla deterrenza nucleare per intimorire l’avversario, suggerisce un bellicoso partecipante alla riunione.
L’unica certezza è che al momento Putin non ha intenzione di trattare: se così fosse, avrebbe reagito alle notizie sul piano di pace italiano (l’unico accenno, in tre giorni di evento Bilderberg, all’Italia), o ai messaggi di Zelensky che, quando parla di ritorno alla situazione del 23 febbraio, lascia intendere che non pretende di riavere subito la Crimea.
Su trattativa e cessate il fuoco circolano due analisi. Prima: se i russi pensassero di poter perdere la guerra, il miglior momento per fermare le ostilità sarebbe questo. Come ha detto Zelensky, ad oggi l’esercito di Putin controlla «il 20 per cento del paese».
Se si congelassero i rapporti di forza attuali, il governo ucraino non potrebbe gestire il paese, tantomeno impostare la ricostruzione, visto che non accede più neppure ai porti, non riesce a esportare o importare quasi nulla. Ma Putin continua a combattere, segno che non si accontenta: vuole ancora tutta l’Ucraina, o almeno trattare da posizioni di maggiore forza.
Restano però i problemi iniziali: senza la leva obbligatoria e la coscrizione di massa, Putin non avrà mai abbastanza uomini per occupare tutto il paese. Potrebbe usare l’aviazione per distruggere linee di comunicazione e infrastrutture, come ha fatto in Siria, ma non lo ha fatto e continuerà a non farlo fino a quando coltiverà il progetto di trasformare l’Ucraina in uno stato fantoccio teleguidato da Mosca. Non vuole governare macerie.
Anche per questo gli Stati Uniti continuano ad armare Kiev. Ma nella comunità dell’intelligence si fa questo ragionamento: visto come sta andando sul terreno, è poco probabile che il negoziato si apra sui confini pre-24 febbraio.
Perché delle due l’una: o l’esercito ucraino è troppo debole per vincere in Donbass, o è abbastanza forte e allora la controffensiva non si limiterà al minimo sindacale, ma potrebbe portare a un attacco più ampio, per cacciare i russi da tutto il paese.
Difficile capire fino a dove si potrebbe arrivare, perché in questo momento gli ucraini considerano Putin una controparte inaffidabile e un criminale di guerra, e i cittadini russi suoi complici. Ma nonostante la retorica americana sul fatto che “saranno gli ucraini a decidere fino a quando combattere e quando trattare”, Zelensky ha soltanto l’autonomia che gli concedono le forniture occidentali e americane in particolare.
Le ripercussioni
La “guerra al terrore” combinata con l’esportazione della democrazia, dopo l’11 settembre 2001, era un concetto quadro assai discutibile e problematico. Ma almeno era una logica, una lettura del mondo all’interno della quale inserire i diversi interventi sul campo, dall’Afghanistan all’Iraq alla gestione delle primavere arabe (tutti disastri).
Oggi, di fronte a Putin, non si percepisce alcuna strategia organica, le decisioni si susseguono un po’ per inerzia ma senza una cornice strategica coerente.
Dopo tre giorni di Bilderberg, le domande sono molte più delle risposte: quanto sono disposti a spendere gli Stati Uniti per armare e ricostruire l’Ucraina? Quale ruolo immaginano per la Russia, sia che vinca, sia che perda? E che peso avrà l’Unione europea? Le sanzioni alla Russia hanno l’obiettivo di aizzare la rivolta popolare contro Putin o di fiaccare l’economia russa in modo che il paese, con Putin o senza Putin, non sia più in grado di nuocere per qualche decennio?
Sembra che gli Stati Uniti non si siano ancora posti neppure la domanda di quanto sono disposti a spendere per l’Ucraina (siamo già ben oltre i 40 miliardi di dollari). E per un presidente come Biden che è stato eletto promettendo la fine delle “forever war”, le guerre infinite, è un punto rilevante.
Tanta vaghezza si spiega in due modi, un più rassicurante e l’altro meno. Il primo: ci sono troppe incognite in questo momento. Come diceva l’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, la cosa più pericolosa in tempo di guerra sono le “unkonwn unknowns”, cioè le cose che non sappiamo di non sapere. Fare previsioni è solo frustrante, «come leader dobbiamo aspettarci l’inaspettato», dice una partecipante al Bilderberg. Si improvvisa, tenendo fermo il punto che Putin non deve vincere e gli ucraini non possono perdere troppo.
La seconda spiegazione è più inquietante: la vaghezza strategica sui destini di Putin è dovuta al fatto che gli Stati Uniti, e non solo loro, guardano più avanti, cioè guardano a Taiwan. In visita a Tokyo, Biden ha detto che l’America è pronta a difendere Taiwan dalla Cina in caso di attacco militare, poi ha corretto e spiegato che «la posizione non è cambiata». Gli Stati Uniti restano nell’ “ambiguità strategica”, che non rende troppo esplicita l’eventuale reazione americana in caso di attacco cinese per evitare di provocare Pechino.
Ma nonostante la tendenza di Biden alle gaffe, qualcosa è davvero cambiato. Dai militari ai politici alle imprese, nel mondo che si riunisce al Bilderbeg c’è una sostanziale unanimità nel valutare che l’annessione di Taiwan da parte della Cina è una possibilità estremamente realistica, anche in tempi brevi (un decennio). Tra i tanti, il primo problema sarebbe la perdita per l’Occidente dell’accesso ai microchip prodotti dall’azienda taiwanese Tsmc che produce, tra l’altro, il 90 per cento dei chip di Apple, Amazon, Google, Nvidia.
Tsmc ha il 54 per cento del mercato mondiale dei chip, Taiwan nel complesso il 63 per cento. Il picco di domanda nella fase post-Covid ha paralizzato interi settori per mesi (soprattutto l’automobile), ma senza i chip di Taiwan l’intera economia occidentale si paralizzerebbe. Si parla di danni per migliaia di miliardi di dollari.
Ogni mossa in Ucraina è fatta pensando anche a questo scenario, e forse gli Stati Uniti non hanno ancora scelto una strategia coerente sulla Russia perché aspettano di capire come e quanto la Cina sosterrà Putin e come si posizioneranno i tanti paesi che finora non sono stati ostili a Putin ma neanche suoi sostenitori (a cominciare dall’India). La guerra vera, quella per la supremazia tecnologica e per il controllo della globalizzazione, è già cominciata, l’Ucraina è solo il più violento dei cambi di battaglia, ma non l’unico.
Magari alla prossima riunione Bilderberg, tra un anno, Putin sarà già un ricordo e si discuterà soltanto di Xi Jinping. O forse no. Nessuno si aspetta una guerra breve in Ucraina, l’estate sarà lunga. E probabilmente non decisiva.
© Riproduzione riservata