Quando si parla di scuola, non si parla quasi mai dei tecnici e dei professionali. Anche i non addetti ai lavori possono approfittare dell’occasione per tornare a riflettere sull’assetto istituzionale del sistema italiano di istruzione secondaria, che di fatto è ancora lo stesso del secondo Novecento
Quando si parla di scuola, non si parla quasi mai dei tecnici e dei professionali. Per cui ovviamente il disegno di legge sull’istituzione di una filiera formativa tecnologico-professionale ha fatto parlare di sé soprattutto per la proposta, per alcuni scandalosa, di abbreviare a quattro anni i percorsi di istruzione tecnica e professionale.
Tuttavia, nonostante si tratti di un argomento fantasmatico e assai complesso, anche i non addetti ai lavori possono approfittare dell’occasione per tornare a riflettere sull’assetto istituzionale del sistema italiano di istruzione secondaria, che di fatto è ancora lo stesso del secondo Novecento.
Crisi di credibilità
Per cominciare, immaginiamo di collocare la proposta dell’attuale governo nel seguente scenario, che possiamo chiamare sinteticamente “crisi dell’istruzione tecnica e professionale”. Si tratta di una crisi di credibilità che interessa soprattutto l’istruzione professionale, le cui iscrizioni sono da molti anni in caduta libera nonostante i numerosi tentativi di riforma, e la formazione professionale, almeno quella rivolta ai minori, concentrata nelle regioni del centro-nord e su pochi settori lavorativi (ristorazione e altri servizi). Unico elemento positivo sembra essere la sostanziale tenuta degli istituti tecnici, che rappresentano una peculiarità italiana nel panorama internazionale: scuole che già dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno goduto di grande autonomia organizzativa e che in molti casi vantano un radicamento profondo nel cosiddetto tessuto produttivo e nelle istituzioni locali.
Non è un caso se in Italia la formazione professionale terziaria viene chiamata formazione tecnica superiore ed è realizzata, attraverso i percorsi di Istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts), dagli Istituti tecnologici superiori (Its): questo genere di scuole sono al centro dell’interesse del governo, lo si vede anche dal disegno di legge.
Gli Istituti tecnologici superiori
Ma occorre considerare anche che l’istruzione tecnica è un’anomalia nel quadro europeo e internazionale, dove generalmente si distingue più nettamente l’istruzione liceale da quella tecnico-professionale, e dove quest’ultima è assai più prestigiosa e diffusa ed è chiamata in qualche modo a salvare il salvabile e a guidare il rilancio di un settore in grande difficoltà.
L’idea di rimettere in fila i pezzi sparsi di un sistema educativo frammentato e inefficiente, quindi, è di per sé positiva, e può essere una buona idea ricominciare da ciò che sembra stia funzionando, ovvero dagli Its (definiti dalla nuova legge Its academy, quasi a volerli un po’ rozzamente nobilitare), a cui è affidata l’erogazione dei percorsi di formazione professionale di quinto e di sesto livello (corrispondente alla laurea triennale) del quadro comune europeo.
Dal punto di vista giuridico, gli Its sono fondazioni di partecipazione, i cui soci sono istituti scolastici (spesso istituti tecnici), università, enti locali e aziende. Al momento ne esistono quasi centocinquanta, e sono difformemente distribuiti sul territorio nazionale: se ne contano 24 in Lombardia, 16 in Campania e nel Lazio, solo una in Molise, Umbria e Basilicata. Laddove sono presenti, gli Its nel 2023 hanno diplomato oltre seimila persone e hanno ottenuto un tasso di occupazione dei diplomati degli anni precedenti superiore all’85 per cento.
Effetti positivi?
A partire da qui, dunque, dovrebbe essere possibile sperimentare dei percorsi quadriennali di istruzione professionale e tecnica, da modificare anche in profondità attraverso la stipula di accordi territoriali che consentirebbero di spingere in direzione della didattica laboratoriale, dell’introduzione di nuovi insegnamenti anche in lingua straniera e del coinvolgimento di figure professionali esterne.
In linea teorica, specie laddove le scuole autonome hanno già dimostrato di essere in grado di mettere a frutto le risorse normative e finanziarie per realizzare un servizio efficace, si può pensare che questa norma produca effetti positivi sull’occupabilità di diplomate e diplomati e sull’attrattività dei percorsi di istruzione tecnica e, forse, professionale. In questo scenario, specialmente se affidata a istituzioni scolastiche già ben inserite negli Its, la norma potrebbe produrre un miglioramento del servizio di istruzione professionalizzante in alcune aree del territorio nazionale, anche grazie alla riduzione di un anno dei percorsi.
Tra l’altro questa riduzione è già attuata nei licei che hanno aderito in passato alla sperimentazione a loro riservata e nel sistema dell’Istruzione degli adulti (Ida), almeno laddove si è stati capaci di sfruttare gli spazi d’azione offerti dalle norme a vantaggio degli studenti.
Un cambiamento marginale
Ma proviamo, in conclusione, a immaginare un altro scenario, e supponiamo che la crisi non interessi l’istruzione tecnica e professionale ma l’intero sistema scolastico, che offre ai nuovi cittadini e alle nuove cittadine un servizio educativo che non esiterei a definire segregazionista, visto che separa precocemente le persone in base alle origini sociali familiari, al background migratorio, al genere e all’area di residenza: tutti elementi che concorrono in larga misura alla scelta del percorso scolastico, al grado di successo del percorso e poi al futuro lavorativo dei minori.
Ora, tra i fattori di persistenza delle disuguaglianze e la loro riproduzione nel campo dell’istruzione non dobbiamo dimenticare proprio il contributo negativo del nostro sistema scolastico. La scuola non solo contrasta le disuguaglianze, ma le riproduce, le nutre, le crea.
Pensiamo che già adesso a tredici o quattordici anni di età è obbligatorio scegliere tra almeno cinque opzioni gerarchicamente ordinate: liceo classico o scientifico, altri licei, istituto tecnico, istituto professionale, formazione professionale regionale. La dimensione diciamo così vocazionale di ogni ordine scolastico, per cui si possono scegliere almeno cinque diversi licei, undici indirizzi di un tecnico e altrettanti di un professionale, è assolutamente secondaria rispetto alla distribuzione nei diversi livelli verticali, a cui corrispondono mondi popolati da persone anche radicalmente distanti tra loro. Rendere più efficienti e appetibili i livelli più bassi, ovvero l’istruzione tecnico-professionale, è senz’altro un obiettivo degno di essere perseguito, ma rimane un cambiamento marginale, che non incide sulla giustizia sociale e che rischia di far dimenticare la necessità di fare la cosa di cui c’è più bisogno: prolungare sul serio l’obbligo scolastico garantendo la permanenza di tutte e di tutti nello stesso percorso scolastico.
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