Una vicenda che sembra tratta dalla penna di Joyce Carol Oates. Da baby star a vittima assoluta, ha incarnato tutti gli stereotipi della società americana, il sogno contemporaneo della popolarità veloce e le sue derive disastrose. Il suo memoir parla anche del nostro bisogno di ricercare surrogati clamorosi per un antico desiderio frustrato
Mi dichiaro colpevole: non ho mai avuto interesse per Britney Spears prima che perdesse il controllo. Era il 2007: la principessa del pop entra in un salone di bellezza, afferra un rasoio elettrico e, con un ghigno sinistro, si rasa a zero. E poi, qualche giorno dopo, armata di un ombrello verde, si scaglia contro l’auto di un paparazzo. Il suo volto è trasfigurato in un ringhio allucinato e le immagini fanno il giro del mondo.
Il coro globale insorge: Britney Spears è uscita di testa. Esaurita, drogata, alcolizzata, Britney divorzia da Kevin Federline, pericolosa per i figli: le viene tolta la custodia. Sembra ripetersi un copione visto altre volte: Kurt, Amy, Michael, Whitney, il talento che uccide. E in più: il destino maledetto delle baby star, la morsa letale del sistema sugli artisti quando sono donne. Il resto della storia è noto: Britney è stata messa sotto la tutela legale del padre per tredici anni.
Anni di prigionia, li definisce la cantante, di controllo totale, sfruttamento, ricoveri coatti e abusi (mentre il padre, che a detta di Britney, ha gravi problemi con l’alcol, di recente ha dichiarato: “Senza la conservatorship mia figlia sarebbe morta”). La cantante è tornata libera solo nel 2021, grazie all’impegno dei fan e del movimento social #FreeBritney, che ha spinto l’attenzione mediatica a smuovere le acque del controverso provvedimento legale.
Tutto questo e molto altro oggi viene raccontato dalla diretta interessata nel memoir The woman in me, Longanesi, un libro da cui si esce straniti, perché la voce di Britney è disturbante, infantile, a più riprese contraddittoria (in questo senso il tasso di autenticità pare altissimo e minimo l’intervento editoriale).
Britney racconta ciò che ha subito prima, dopo e durante l’interdizione, ma accanto alla gravità delle vessazioni – un padre tirannico che la riduce in schiavitù, una madre che alla figlia paziente psichiatrica ripete solo quanto è brutta, un fidanzato (Justin Timberlake) che la costringe ad abortire nel bagno di casa e, mentre lei si contorce dal dolore, riesce solo a suonarle la chitarra –, a colpire è soprattutto l’effetto di congelamento nel passato, la sensazione alienante di ascoltare il racconto di una quarantenne bloccata nella preadolescenza.
Britney ha iniziato a interessarmi dal momento in cui ha perso il controllo e probabilmente ha ragione J. Doyle quando, nel saggio Spezzate, Tlon, scrive che, come società, siamo attratti dal tracollo delle donne di successo (è il prototipo della trainwreck, l’anomalia femminile punita). Ma forse quell’esplosione di rabbia e oscurità del 2007 era così interessante ai miei occhi anche perché Britney Spears è lì che ha iniziato ad appropriarsi del suo personaggio, raccontando – dopo aver a lungo esaudito i desideri degli altri con l’archetipo della vergine della porta accanto – qualcosa di vero. Qualcosa di doloroso e fuori misura, che ha a che vedere con lo spirito della società americana – divenuto ormai anche il nostro, come cultura della performance –, con lo show business e il modo in cui tutto questo può legarsi ai traumi famigliari e la smania di riempimento affettivo.
La storia di Britney sembra uscita dalla penna di Joyce Carol Oates: le vicende riportate nella prima parte del memoir ricordano Sorella, mio unico amore, il capolavoro della scrittrice incentrato sull’omicidio di Jon Benét Ramsey, la reginetta di bellezza di sei anni trovata uccisa nella cantina di casa. È la storia, quella e questa, di una famiglia in cui il disagio mentale si allea con l’ambizione, in un ciclo degenerativo di ferite tramandate e contagio psicopatologico.
Britney voleva essere vista, è stata disposta a tutto pur di essere vista, e la sua vicenda, impregnata di american dream e riscatto narcisistico, non può che rievocare un’altra figura tragica della società dello spettacolo, ovvero Marilyn. Osservare da vicino la sua storia – forse anche più da vicino rispetto a quanto consenta lo stesso memoir – significa contemplare squarci profondi che sono anche i nostri: Britney incarna il sogno contemporaneo della popolarità precoce, vasta, e incondizionata, nonché le sue derive catastrofiche.
Come nei romanzi di Oates, questa attitudine genera personalità piatte, bidimensionali, ma accanite: caricature dall’emotività repressa, pronta a deflagrare. Qualcosa di cui sembra impossibile liberarsi, dato che lo stesso memoir, preso da molti come il simbolo dell’avvenuta liberazione, in realtà conferma il vuoto su cui siamo sospesi.
Britney passa da uno stereotipo all’altro: prima baby star ora vittima assoluta che denuncia i carnefici con una vendetta ad amplissimo raggio e una polarizzazione etica da fiaba, o fondamentalismo religioso, mettendo sullo stesso piano crimini e scaramucce sentimentali (nonché rivolgendo alle stesse persone parole d’odio e dichiarazioni d’amore).
La teen idol e la vittima spettacolare: Britney riunisce due archetipi della società americana, uno classico l’altro più recente, ma entrambi appunto superficiali e invischianti, legati ai criteri della performance, ossessionati dallo sguardo da catturare. Piacere agli altri, essere desiderati: la verità rimossa di questa e molte altre ricostruzioni del genere è che il desiderio di essere amati spesso diventa desiderio di essere divorati, ma in questo libro, che incrocia feticismo nostalgico millennial ed esaltazione woke, non c’è spazio per le verità tragiche (che animano invece i romanzi di Oates).
Britney Spears è stata rovinata dagli altri, da sé stessa o da entrambi? Era una persona adatta al mondo dello spettacolo o avrebbe dovuto fare altro nella vita? Sicuramente le persone attorno a lei hanno agito con insensibilità, persino sadismo, e attaccamento al denaro, ma è importante non ridurre tutto solo alla contrapposizione buoni/cattivi tanto cara agli algoritmi, perché il rischio è di perdersi elementi ulteriori e profondi, che hanno a che fare proprio con la protagonista di questa storia, una figura commovente non solo per la famiglia disfunzionale in cui è cresciuta.
La forza ambigua, e a tratti straziante, del mito di Britney Spears, che poi è anche quella di Marilyn, ha a che fare con un bisogno d’amore furioso e primitivo che trova nella società una serie di alleanze oscure. Un bisogno così grande da oltrepassare il personaggio in cui arriva a essere rinchiuso, e farsi iconoclasta.
Marilyn si è impadronita del cartonato dell’oca bionda in cui l’avevano infilata, Britney Spears a un certo punto ha cercato di distruggere sé stessa. La sua storia è interessante non tanto, o non solo, in quanto schiava dello show business, ma perché parla della nostra tendenza a cercare surrogati clamorosi per l’antico desiderio frustrato, del male che siamo disposti a farci, e lasciarci fare, pur di raggiungere il castello incantato dell’approvazione. Parla del ruolo del tempo, di come si fermi, a volte irrimediabilmente, per effetto di questo desiderio onnipotente, rendendoci bambini paralizzati nell’attesa infinita del complimento di mamma e papà (belle su questo le pagine in cui Britney confronta la sua esperienza con quella, antitetica, di Madonna, che per certi versi ha ucciso il padre, sostituendosi ad esso).
Nel periodo di esibizioni coatte a Las Vegas Britney Spear viene costretta a cantare solo le canzoni più vecchie del suo repertorio: è il sortilegio per effetto del quale il padre e il suo entourage le impediscono di crescere. Lei si ribella non muovendo i capelli (parrucche), rifiutandosi di mettere in moto ciò che tutti amano.
Tra azione e reazione, abuso e rivalsa, il cerchio della dipendenza dallo sguardo degli altri si rinnova: sembra essere infranto, venir superato, ma trova solo un nuovo linguaggio, un nuovo codice, in cui incarnarsi. Nella sua storia Britney rivela più di quello che sembra, è il non detto che scuote e lascia attoniti: non un’epica di liberazione, ma la trasformazione impossibile di un bisogno infantile, oggi più che mai motore della vita di tutti noi che ci affacciamo a spiare, morbosi e indignati, tra i resoconti di una lolita impazzita.
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