Visitabile fino al 7 aprile, Women in Revolt!, è il risultato di un progetto di ricerca durato cinque anni e ricostruisce la storia degli intrecci tra arte e femminismo nel Regno Unito tra il 1970 e il 1990
«In assenza di un’arte femminista dobbiamo inventarla man mano che procediamo. Qui c’è un inizio, per favore continuate». È con questa frase, scritta dall’artista Kate Walker nel 1974, che si chiude la densissima e importante mostra in corso alla Tate Britain di Londra, visitabile fino al 7 aprile. Women in Revolt!, è il risultato di un progetto di ricerca durato cinque anni e l’accuratezza con cui questa mostra (e il rispettivo catalogo) ricostruisce la storia degli intrecci tra arte e femminismo nel Regno Unito tra il 1970 e il 1990, dimostra quanto i tempi lenti dell’approfondimento siano fondamentali. Una ricostruzione avvenuta prevalentemente attraverso gli incontri e le interviste con le circa cento artiste coinvolte e il gruppo curatoriale e di ricerca guidato da Linsey Young.
Questo racconto parte dal 1970, anno della prima Naitional Women’s Liberation Conference tenutasi a Oxford, alla quale parteciparono oltre 500 donne. Da qui in poi la mostra si snoda in ordine cronologico, attraverso le opere di artiste che in molti casi non trovarono posto nel sistema ma ebbero la capacità di inventare strade alternative. È il caso del Women’s Postal Art Event avviato nel 1974 da Sally Gollop e Kate Walker portata avanti fino al 1977 da un numero sempre maggiore di artiste, tra cui Su Richardson, che s’inviavano tra loro piccole opere realizzate in ambito domestico
La questione lavorativa
Oltre a riordinare cronologicamente gli eventi questa mostra raggruppa le opere in nuclei tematici centrali per il discorso femminista. Una delle questioni più ingombranti è quella lavorativa, estremamente sfaccettata e declinata tra la questione dell’equità di trattamento salariale, quella del lavoro domestico, riproduttivo e di cura. Per esempio l’indagine sull’organizzazione del lavoro svolta da tre artiste, Margaret Harrison, Kay Hunt e Mary Kelly, tra le lavoratrici di una fabbrica londinese mostra la condizione di sovraccarico di mansioni femminili tra casa e fabbrica.
Rappresentativa è l’opera di Alexis Hunter dal titolo The Marxist’s Wife (still does the houseworks), in cui una mano femminile spolvera un ritratto di Marx. Significativa è anche l’opera di Susan Hiller, che fotografa la crescita del proprio addome nei nove mesi della gravidanza, associando a ogni fase dei testi sul proprio cambiamento, così come il lavoro del gruppo Hackney Flashers sull’impossibilità di essere al contempo madre e lavoratrice in mancanza di strutture di supporto.
Indagine sulle sottocolture
L’esposizione dedica una sala all’indagine delle sottoculture che, a partire dalla metà degli anni Settanta, misero più provocatoriamente in discussione tutte le norme relative alle identità di genere, è il caso di Cosey Fanni Tutti, che, tra le altre cose, ha indagato il contesto dell’industria sessuale e di Jill Posener con le sue fotografie di graffiti.
Sul piano dei movimenti femministi, gli anni Ottanta nel Regno Unito si aprirono con lo scontro sulla decisone del governo Thatcher di permettere lo stoccaggio di missili cruise nella base americana di Greenham. Le proteste si concretizzarono nel 1981 con il Greenham Common Women’s Peace Camp, insediamento frequentato anche da diverse artiste che vi organizzarono performance come “Brides Against the Bomb” del 1983 con Shirley Cameron ed Eveline Silver.
Le rivendicazioni femministe in ambito anglosassone non si fermarono e proseguirono soprattutto sul fronte della richiesta di diritti per le donne di colore, attive dalla fine degli anni Settanta con l’Organization of Women of African and Asian Descent (OWAAD). In ambito artistico prese vita, all’inizio del decennio, il British Black Art Movement le cui ricerche indagavano le intersezioni tra questioni razziali e di genere. Risalgono a questo periodo le opere di autrici come Mona Hatoum, che in una performance denunciava il trattamento discriminante subito ad opera della polizia, e gli svariati lavori figurativi di artiste come Sonia Boyce, Bahajan Hunjan, Stella Dzadie, per citarne alcune. Sul piano dei linguaggi infatti la mostra permette di notare il mutamento che portò, nel panorama artistico occidentale generale dell’epoca, dal predominio di opere concettuali e performative degli anni Settanta a un progressivo ritorno dell’interesse per la figurazione pittorica negli anni Ottanta.
La storia si conclude al volgere del decennio, con il moralismo tatcheriano, a cui fanno da contraltare le battaglie omosessuali, e lo sgretolamento dell’idea di responsabilità sociale in favore di quella individuale, mentre il mercato dell’arte si adeguava al nuovo clima comprimendo di conseguenza gli spazi per queste ricerche.
Sebbene sia difficile dare una definizione univoca di arte femminista – come del resto è impossibile parlare di femminismo al singolare – qui l’accezione è chiara e dichiarata: la maggior parte dei lavori presentati (e tutti i documenti esposti) parlano d’impegno sociale. È necessario non smettere di frequentare questi territori e raccogliere l’invito di Walker per non arrestare questo cammino.
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