- La zona rossa è un lembo di terra, posto al di qua dei confini europei. Chi ci entra rischia il carcere, per incontrare gli attivisti che aiutano i migranti al confine tra Bielorussia e Polonia bisogna andare in luoghi nascosti.
- «Portare loro l’acqua», dice uno di loro sotto la garanzia dell’anonimato, «è diventato un gesto da partigiano». «Nella foresta si crepa», e la foresta «è cattiva», ci spiegano.
- E la sola cosa a cui riusciamo a pensare è che tra la Bielorussia delle manovre del regime e la Polonia dei muri non ci può essere spazio per l’ennesima pagina dell’Europa dei silenzi.
La zona rossa è un lembo di terra, posto al di qua dei confini europei.
È un territorio fortemente presidiato che divide la Bielorussia e la Polonia ed è l’imbuto dove sono finiti i migranti sospinti da Lukashenko, persone trattate come carne da macello portate fin qui anche con le minacce e gli inganni e convinti, così, a raggiungere un presente diverso.
Il governo polacco, com’è oramai noto, ha reagito alla torbida azione del dittatore del regime bielorusso nel modo peggiore: ha sbarrato ogni porta d’accesso, ha creato un muro nei fatti.
Così la zona rossa è il bosco dove uomini, donne, bambine, bambini hanno loro malgrado trovato un spazio dove tentare di sopravvivere.
Si tratta di un luogo difficile e paludoso, inospitale e segnato dal freddo che l’oscurità avvolge.
Un limbo del diritto buio dentro al quale non si distinguono neppure gli alberi, alti e robusti, quando a conclusione di una nostra giornata di “missione” con altri due colleghi - il capodelegazione del PD Brando Benifei e lo storico “medico di Lampedusa” Pietro Bartolo - improvvisiamo un breve discorso.
«Nella foresta la gente crepa», ci ripetono gli attivisti europei, prevalentemente proprio polacchi, che hanno deciso di salvare vite.
E aggiungono che in questo periodo dell’anno è «una foresta cattiva».
Lo spiega anche un’infermiera che chiede di non essere citata. Si commuove quando dice della donna morta di parto, con, tra le sue braccia, il minuscolo cadavere del neonato.
Il governo polacco, del resto, fa le cose sul serio. Non lascia spazio alla compassione e ostacola in tutti i modi ogni tentativo di soccorso.
Apriamo tutti gli occhi: questo è quel che accade in Polonia, cioè in Europa, in questi mesi che precedono l’inverno.
Migranti arrivati fin qui - prevalentemente originari della Siria, dell’Afghanistan, dell’Iraq - cercano in ogni modo di farcela mentre le autorità nazionali ostacolano gli operatori umanitari affinché non aiutino e i giornalisti affinché non vedano.
L’azione del governo polacco mostra una sua efficacia sul piano autoritario e della disumanità, non c’è che dire.
Sopravvivere e disperdersi
I profughi sopravvivono nel dramma e si disperdono, diversi di loro finiscono in Lituania, altri si sparpagliano, e le autorità, da Varsavia, ribadiscono di non avere voglia di cambiare la direzione delle proprie scelte ed anzi si appoggiano alla legislazione d’emergenza. Un’emergenza, ad oggi, costituita da alcune migliaia di persone in carne ed ossa trattate come ombre.
Le istituzioni europee, in questo quadro, reagiscono con lentezza e imbarazzo, certamente in modo violentemente inadeguato.
Se dal Parlamento si leva più di una preoccupazione il Consiglio europeo e perfino la Commissione non mostrano cenni particolarmente incoraggianti: del resto sull’immigrazione si deve cambiare tutto e questa è un’altra pagina che lo dimostra, nella sua irriducibile spietatezza.
La pensano così anche i cittadini che dalle parti di Michalowo organizzano tentativi di solidarietà.
La loro azione è semplice, materiale: a volte è fatta di sacchi a pelo e coperte termiche, come quelle che aiutano i senzatetto che dormono nelle strade di diverse metropoli d’Europa, altre volte di cibo, in altri casi ancora di interventi di medici e operatori sanitari.
Si tratta, sempre, di una solidarietà preziosa che fa i conti con l’opera autoritaria in atto.
Così gli attivisti hanno paura, non si fidano, spesso scelgono l’anonimato. In alcuni casi vogliono essere incontrati in luoghi seminascosti.
Portare l’acqua, un gesto da partigiani
Del resto se si accede alla zona rossa si rischia il carcere.
«Portare l’acqua è un gesto da partigiani, non lo avrei mai pensato», ci dice uno di loro con cui ci confrontiamo nel seminterrato di un locale di cui non si può rivelare il nome.
Sono parole che lasciano sbalorditi, impressioni che conferma anche Alessandro Metz, di Mediterranea, arrivato qui a consegnare beni raccolti con la cooperativa sociale Nuova Ricerca Agenzia Res «la Polonia è una punta avanzata di criminalizzazione del soccorso, servirebbe subito un salvacondotto europeo».
Che poi vorrebbe dire una forma immediata, urgente di intervento.
Un gesto di umanità, di giustizia, lo si chiami come si preferisce.
Per quel che ci riguarda lo abbiamo sollecitato e continueremo con ancora più insistenza a farlo.
Perché tra la Bielorussia delle manovre del regime e la Polonia dei muri non ci può essere spazio per l’ennesima pagina dell’Europa dei silenzi.
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