L’anniversario del rinnovo del memorandum d’intesa rivela che non solo il patto non ha funzionato, ma l’impegno dichiarato di modificarlo per migliorarlo è stato tradito
- Un anno fa, in questi giorni, il governo si trovava a un crocevia: poteva rinnovare il memorandum d’intesa con la Libia o metterlo da parte. Decise di mantenerlo ma promise cambiamenti.
- Quando però Tripoli ha rifiutato la timida proposta italiana, l’esecutivo italiano ha fatto spallucce. L’Italia intanto ha continuato a fornire motovedette, ha prorogato le missioni militari, e ha proseguito nei fatti la strategia di esternalizzazione della frontiera in Libia.
- La situazione di rifugiati e migranti in Libia non è migliorata. Le promesse per i diritti erano poco più di un esercizio retorico.
Un anno fa, in questi giorni, il governo si trovava a un crocevia: poteva rinnovare il memorandum d’intesa con la Libia, firmato tre anni prima e ormai in scadenza, o metterlo da parte. Appena insediatosi, il governo Conte bis era sotto pressione. Voleva mantenere l’accordo, la cui attuazione aveva garantito – mediante il rafforzamento delle autorità libiche con motovedette, formazione e assistenza nel coordinamento delle operazioni – un calo impressionante nel numero di rifugiati e migranti sbarcati in Italia. Ma le prove delle violenze nei confronti di donne, uomini e bambini, sottoposti a detenzione arbitraria, omicidi, torture e stupri nei centri di detenzione in cui venivano rinchiusi a seguito della loro intercettazione in mare e del loro sbarco in Libia, erano ormai troppe per far finta di non vederle. Perciò, se da una parte il governo decise di mantenere il memorandum, dall’altra dovette promettere dei cambiamenti. «Il governo intende lavorare per modificare in meglio i contenuti del memorandum, con particolare attenzione ai centri e alle condizioni dei migranti», dichiarò alla Camera il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
A un anno di distanza, occorre chiedersi che ne è stato di quell’impegno. Effettivamente, nel febbraio scorso, il governo italiano ha inviato a Tripoli una proposta di modifica del memorandum. C’erano alcune belle parole, ma era una proposta all’acqua di rose: proponeva soltanto il «progressivo superamento» e parallelo «adeguamento» dei centri di detenzione, legittimandoli piuttosto che pretendendone l’immediata chiusura, e rimestava la solita promessa di facilitare il lavoro delle agenzie Onu, come se queste potessero fermare gli abusi. Nei mesi successivi il governo di Tripoli ha però rifiutato la pur timida proposta italiana.
E a fronte di tale rifiuto, l’Italia ha fatto spallucce, continuando l’assistenza con la fornitura di nuove motovedette, la proroga delle missioni militari, e lo stalking delle Ong impegnate in mare. Nei fatti, la strategia di esternalizzazione della frontiera in Libia è stata portata avanti con tale continuità da far pensare che le promesse in materia di diritti umani fossero poco più di un esercizio retorico.
A fronte di balletti politici e promesse da marinai, la situazione di rifugiati e migranti in Libia non è migliorata. Le persone intercettate in mare dalla Guardia Costiera Libica continuano a venire sbarcate in Libia – piuttosto che in un porto sicuro – e trasferite nei centri di detenzione. Centinaia di persone sono state trasferite in centri semi-clandestini, come la “Fabbrica del Tabacco” di Tripoli, mentre di altre centinaia si sono perse le tracce. Chi è passato dai centri di detenzione continua a raccontare di sevizie e torture, e anche chi è in libertà resta a rischio di rapimenti, rapine e sfruttamento.
La situazione si è aggravata a causa del conflitto civile, che per mesi ha visto Tripoli assediata, prima che il governo turco furbescamente intervenisse in sua difesa, scalzando l’Italia nel ruolo di alleato preferito. Ora il presidente turco Recep Tayyp Erdogan potrebbe usare le partenze dalla Libia come spauracchio – come già fa nell’Egeo – mostrando i limiti di politiche che, fondandosi sulla collaborazione di governi autoritari, espongono chi le pratica a ricatti permanenti.
Covid-19 ha complicato il quadro, tra l’altro offrendo al governo italiano una scusa per limitare ulteriormente lo sbarco in Italia di naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale e per sospendere le già risicatissime evacuazioni umanitarie dalla Libia.
Oggi c’è un governo diverso da quello che aveva congegnato la cooperazione con la Libia, ma le differenze stentano a mostrarsi. L’architetto di quella strategia ne conosceva i rischi: «Nel momento in cui dovesse stabilizzarsi il dato dell’azione di controllo delle acque territoriali libiche da parte della guardia costiera, si pone una questione di grandissimo rilievo, e cioè il tema delle condizioni di vita di coloro che vengono salvati dalla guardia costiera e riportati in Libia», disse nell’agosto 2017 l’allora ministro degli Interni Marco Minniti. «Come voi sapete questo è l’assillo personale mio, ed è l’assillo dell’Italia», concluse.
Quell’assillo non si è dimostrato poi così pungente. Se così fosse, vedremmo il governo impegnato nella chiusura dei centri di detenzione e nell’evacuazione di qualche migliaio di rifugiati. Ma così non è, purtroppo. A un anno dalla promessa di modificare i termini della cooperazione con la Libia, tradita e abbandonata come le persone scaricate aldilà del mare, è tempo che il governo ne dia conto. Possibilmente con i fatti, più che a parole.
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