Il 22 marzo i sindacati confederali del settore trasporti e logistica hanno proclamato lo sciopero della filiera di Amazon. Alla protesta hanno poi aderito anche i sindacati confederali dei lavoratori in somministrazione (i cosiddetti interinali) che rappresentano la maggioranza dei lavoratori impiegati presso gli stabilimenti della società, assunti tramite agenzie con contratti che inizialmente vanno da uno a tre mesi con possibilità di proroga.

Spesso si tratta di persone che vivono in condizioni svantaggiate. E questo permette ad Amazon di superare le soglie previste per il ricorso alla somministrazione di lavoro. Perché proclamare uno sciopero? Come FeLSA Cisl (la categoria della Cisl che rappresenta e tutela i lavoratori somministrati, autonomi e atipici), insieme alle altre organizzazioni sindacali del comparto, abbiamo avanzato delle proposte alle agenzie per il lavoro coinvolte per provare a risolvere alcuni problemi. Anzitutto quello del turnover esasperato. Infatti, nonostante le promesse di restituire, per decreto, dignità e stabilità ai lavoratori, nulla è cambiato: la stretta sui contratti a termine per i profili professionali meno necessari, ha generato un continuo ricambio di lavoratori.

Sappiamo bene che Amazon deve affrontare forti oscillazioni dei volumi di attività dei propri magazzini, ma questo a nostro parere non deve produrre dei “lavoratori usa e getta”. È possibile predisporre un sistema di norme che permetta all’azienda di gestire i volumi di attività, ma che garantisca al tempo stesso un minimo retributivo dignitoso e una maggiore continuità lavorativa? Secondo noi sì. Fare di più e meglio in questo periodo non facile per il paese, è un dovere morale.

Ci auguriamo che dietro la gestione del personale adottata finora da Amazon non si nasconda una strategia per indebolire il lavoratore che, a fronte di contratti molto brevi, deve essere sempre più disponibile alle richieste dell’azienda se vuole mantenere il proprio posto. In questo modo, con i lavoratori costantemente ricattati dalla necessità di ottenere una proroga, le tutele previste dai contratti collettivi rischiano di vaporizzarsi.

Chi infatti correrebbe il rischio di usufruire della malattia o di un permesso se sospetta che questo possa incidere sulle scelte dell’azienda? Chi eserciterebbe un diritto come il rifiuto di un turno fuori orario, se sa di avere davanti solo un mese di contratto e spera di non essere mandato via? Insomma, i problemi che poniamo non sono astratti, ma rappresentano la quotidianità di chi vive negli stabilimenti. Per questo chiediamo ad Amazon di venire allo scoperto. Di rispondere alle nostre proposte ed entrare nel merito dei problemi. Tra questi anche quello della maggiorazione prevista per il lavoro notturno. Crediamo infatti che venga applicata una percentuale errata in busta paga. E anche su questo serve una risposta definitiva e motivata visto che stiamo parlando di qualcosa che ha un impatto non secondario sulla retribuzione di migliaia di lavoratori. Ultimo aspetto è quello che riguarda la questione abitativa.

Molte persone si spostano verso gli stabilimenti del centro-nord impegnando risorse ed energie per firmare contratti molto brevi con la speranza di essere stabilizzati (cosa che avviene in rarissimi casi). Ma questo avviene anche perché il bacino delle persone provenienti dai territori in cui si trovano gli stabilimenti sono già state “utilizzate”. Ecco, credo che questo dia un’idea della dimensione del turnover. Amazon deve fare una scelta: o la logica della responsabilità sociale o quella dell’usa e getta. Se sceglierà la seconda opzione ammetterà che, nonostante i toni dei suoi spot pubblicitari, considera i propri dipendenti in somministrazione come la merce che gli stessi prelevano dagli scaffali. Se invece preferirà la prima, è necessario aprire un tavolo di confronto con l’azienda e tutte le rappresentanze coinvolte, dai somministrati ai dipendenti diretti, per arrivare a un’intesa che dia finalmente le risposte che servono.

Mattia Pirulli è segretario generale FeLSA Cisl

 

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