- La didattica della quarantena ha funzionato male. Del resto, perché abbiamo sperato che andasse diversamente? Abbiamo semplicemente trasferito online le lezioni frontali che non funzionavano neppure quando erano in presenza.
- Che senso ha impostare una strategia di riapertura attorno al lavoro di prefetti (e sindaci) se poi situazioni e risultati diversi di questo lavoro sono trattati nello stesso modo per livellare tutti verso il basso? Trattiamo comuni diversi in maniera diversa, riportando a scuola gli studenti il più possibile (75 per cento almeno) e facendolo ovunque si può.
- È ora di occuparci delle piattaforme: Google, Microsoft, WeSchool. Dove sono i numeri su chi e come le sta usando? E i protocolli per garantire che i dati personali di studenti e docenti siano gestiti in un certo modo?
Le scuole superiori non riprendono in presenza al 75 per cento, ma solo al 50 per cento, e neppure nei tempi previsti: non prima del 18 gennaio per cinque regioni tra cui Lazio, Piemonte e Puglia; non prima del 25 per Campania, Emilia-Romagna o Lombardia; tutto rinviato al primo febbraio per le ultime sette, tra cui Calabria, Sicilia e Veneto.
Diciamolo chiaramente: non va affatto bene. Per ormai complessivamente troppo tempo gli studenti sono rimasti a casa, in condizioni socio-economiche molto diverse tra loro ma tutti accomunati da un crescente disagio psicologico. Altri due o tre Dpcm, altre due o tre ordinanze regionali, ed ecco apparecchiata una generazione perduta.
Non abbiamo bisogno di altri segnali. Basta considerare che alla vigilia di questo ritorno in classe dimezzato avevamo cominciato a perderci pure gli studenti con maggiori possibilità: quelli con case grandi e confortevoli, disponibilità di device e buona connessione, genitori in grado di stare loro vicini. Riusciamo anche solo a immaginare che fine abbiano fatto tutti gli altri?
La didattica della quarantena ha funzionato male. Del resto, perché abbiamo sperato che andasse diversamente? Abbiamo semplicemente trasferito online le lezioni frontali che non funzionavano neppure quando erano in presenza. Certo ci sono state le eccezioni, ma un paese ha bisogno di far funzionare la norma. La didattca a distanza avrebbe potuto supplire per qualche settimana, al massimo per un trimestre. Ma noi siamo finiti abbondantemente oltre: ad una mancanza di socialità e apprendimento così prolungata nel tempo che la malattia è ormai prossima a cronicizzarsi.
Tutto questo ci dice che il valore di tornare in presenza – o almeno in modalità mista, ma dove la parte in presenza è percentualmente molto superiore a quella online – vale adesso ogni giorno di più. Perché da oggi in poi i giorni smettono di essere tutti uguali e la prossima non sarà soltanto “un’altra settimana senza scuola”. Ci stiamo pericolosamente avvicinando al momento in cui i danni da scuola chiusa diventeranno permanenti.
Le possibili soluzioni
Che fare, allora? Se nessuno pare avere la ricetta, alcuni ingredienti ci paiono comunque indispensabili. Ne citiamo tre.
Il primo è smettere di trattare ogni Regione in maniera omogenea al proprio interno. Il sindaco Beppe Sala ha di recente lamentato proprio questo: Milano sarebbe stata pronta a riportare i ragazzi delle superiori in classe. Stessa cosa nella Bergamo di Giorgio Gori. Ma siccome questo non era il caso di tutta la Lombardia, è finita che tarderanno a rientrare tutti, i loro ragazzi e gli altri. Ci si è messo di mezzo il riaggravarsi del quadro epidemiologico. Ma che senso ha impostare una strategia di riapertura attorno al lavoro di prefetti (e sindaci) se poi situazioni e risultati diversi di questo lavoro sono trattati nello stesso modo per livellare tutti verso il basso? Trattiamo comuni diversi in maniera diversa, riportando a scuola gli studenti il più possibile (75 per cento almeno) e facendolo ovunque si può. E concentriamo a quel punto ogni sforzo, anche ministeriale, sulle scuole e i comuni rimasti indietro.
Il secondo ingrediente è capire che denigrare la Dad serve a poco. C’è un’alternativa a dire che fa schifo. Ed è occuparsene per bene, senza timore che questo indebolisca la richiesta di tornare in classe. Perché comunque resta incerto lo scenario sanitario, e perché molte delle cose che stiamo imparando in questi mesi – e a che prezzo! – ci torneranno utili nella scuola di domani.
In concreto? È ora di occuparci delle piattaforme: Google, Microsoft, WeSchool. Dove sono i numeri su chi e come le sta usando? E i protocolli per garantire che i dati personali di studenti e docenti siano gestiti in un certo modo?
Com’è ora di occuparci di chi le sta usando: dov’è il massiccio piano di formazione obbligatoria di tutti i docenti sulle nuove metodologie di insegnamento? Smettiamo di lamentarci perché le lezioni online sono scadenti e pretendiamo che il ministero dia incarico domattina di trasformare il corpo docente di ogni scuola d’Italia in una “avanguardia educativa”.
Terzo ingrediente: la prossima estate. Ne abbiamo già persa una, quando il paese (e la scuola non ha fatto eccezione) ha vissuto la fine del lockdown come un tana-libera-tutti invece che come un periodo di recupero. Non possiamo adesso ripetere lo stesso errore. A giugno scorso – con un gruppo di deputati e scrittori – avevamo chiesto che i mesi estivi fossero sfruttati per fare le prove generali del ritorno a scuola. Adesso serve essere ancora più ambiziosi: va ripensato il calendario scolastico, come chiede pure il collettivo Condorcet, per far sì che la prossima estate sia un periodo di ricompattamento e socialità ricostruita. Preceduta da una dettagliata analisi dei debiti formativi maturati dagli studenti che ogni scuola, con l’aiuto di Invalsi, potrebbe fare in maniera mirata sulla propria realtà; e dal lavoro che deve partire adesso affinché il prossimo primo settembre tutti i docenti siano al loro posto in classe, non appesi a graduatorie bizantine in attesa di essere chiamati.
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